Michele è morto e Mimì, suo padre, non riesce a darsi pace per quel figlio che ha deciso di togliersi la vita così giovane. E da boss della Sacra non chiede altro che vendetta per questa morte che non riesce ad accettare. Come non può accettarla Arianna, la figlia rimasta, che vede tutto il suo mondo scivolare via: la sua famiglia sta implodendo su sé stessa, suo fratello non c’è più e lei anela una libertà che finora ha solo sfiorato.
«Quello non è suo padre, non più. E quell’altra non è sua madre, non più. Niente può essere uguale a prima se sulla strada davanti casa c’è la macchia lasciata da tuo figlio. O da tuo fratello. Anche lei, ormai, non è più lei. Non sa cos’è».
Ma la morte di Michele reclama vendetta e allora lo sguardo di Andrea Donaera si allarga e include Nicole. Anche lei è solo una ragazzina ma ha un errore fatale alle spalle: ha rifiutato l’amore di Michele e tanto basta per farla diventare agli occhi di Mimì la causa di quella morte inaccettabile. E in un contesto come quello gli errori si pagano col sangue.
Nicole viene quindi consegnata a Veli, il ragazzo che per qualche giorno le farà da carceriere nella casa abbandonata tra la più impenetrabile delle campagne salentine, in attesa che Mimì decida come risolvere il problema. Tra Veli e Nicole nascerà un’intesa perché per lui sarà l’occasione di ricordare quell’amore che ha solo accarezzato senza mai avere tutto per sé, quello per Arianna. Cosa ne sarà di Nicole? Riuscirà Mimì a mantenere il controllo sulla situazione? E perché Veli e Arianna non possono amarsi liberamente?
«“Questo posto potrebbe essere meno schifoso. Ma tu, invece di provare a non aumentare lo schifo, te ne fotti. E sullo schifo metti altro schifo”. Sembra stia parlando della mia vita. Resto zitto».
Io sono la bestia è l’esordio di Andrea Donaera come romanziere, uno di quelli che lasciano il segno e fanno intravedere grandi potenzialità, in cui viene raccontata una storia cupa e violenta dove la speranza è un concetto che non sfiora minimamente le vite dei nostri protagonisti, anime disperate che non hanno più nulla da chiedere. Un testo a quattro voci che con un ritmo serrato svela gli orrori nascosti sotto la superficie di una famiglia a suo modo perfetta ma che trasforma in veleno tutto quel che tocca.
È il 22 settembre 2004 quando Lost va in onda per la prima volta sui nostri schermi e certamente non si esagera affermando che nel mondo della serialità c’è un prima e un dopo Lost, un vero e proprio cultural reset che cambiò per sempre il modo di intendere, pensare e realizzare un prodotto televisivo.
E così, per sei stagioni, seguiamo le vicende dei sopravvissuti allo schianto del volo Oceanic-815 Sydney-Los Angeles su una misteriosa isola del Pacifico non segnalata sulle mappe, un luogo all’apparenza deserto. Niente di più sbagliato: la stessa Isola è un’entità misteriosa, un luogo impossibile da raggiungere tanto quanto da lasciarsi dietro. E così scopriamo che ha poteri di guarigione sui suoi abitanti, il tempo lì sembra scorrere in maniera diversa e ognuno dei personaggi che va in scena sente che l’Isola è l’occasione per riflettere su di sé, sul senso della propria esistenza.
Una narrazione complessa e contorta, un universo da esplorare che si costruisce attorno una vera e propria mitologia. Si passa dalla survivor story alla fantascienza, al realismo magico, dal drama alla soap con l’obiettivo di solleticare costantemente la curiosità del pubblico, la sua sete di conoscenza: Lostè una vera e propria esperienza di gioco sorretta da personaggi realistici, in cui è facile immedesimarsi mentre si scava nel loro vissuto grazie anche all’ampio uso di flashback. È lì che sta tutta la carica emotiva della serie, la sua forza.
Ma prima di parlare del perché Lost sia così fondamentale occorre dare un po’ di contesto perché non si può capire la sua importanza se prima non si ripercorrono alcuni passaggi storici della serialità televisiva americana. Come si arriva a concepire una serie del genere? E qual è l’humus che ne consente la nascita?
1. Mercato tv americano e serialità: qualche cenno storico
Negli anni 80 i principali network americani (ABC, CBS e NBC) vedono i loro ascolti calare drasticamente e il motivo di questa crisi è molto semplice: il pubblico sta cambiando, è più esigente, ha bisogno di nuovi stimoli e quindi i prodotti di massa non riescono più a fare breccia perché sono pensati per un pubblico omogeneo che non esiste più. La spinta definitiva arriva dall’esterno, dalla casa di produzione MTM che concretamente rivoluziona il panorama seriale innanzitutto accaparrandosi le eccellenze nel campo della scrittura (e lasciando loro massima libertà creativa) ma anche creando uno stile sempre definito, riconoscibile e autoreferenziale che nel racconto riesca ad anticipare temi che emergono dalla società.
È da questa esperienza che nasce il concetto diQuality Tv di Robert Thompson, uno dei più grandi studiosi di mass media e tv, che tuttora è lo standard produttivo per eccellenza: tutte le serie da lì in poi hanno nella scrittura il loro punto forte e una struttura multiplot – composta quindi da più linee narrative – che convergono nel creare una trama orizzontale che abbraccia tutti gli episodi. E poi si tratta di prodotti che hanno memoria di sé, che fanno della ripetizione una caratteristica.
Le idee ci sono, le produzioni cambiano ma il pubblico non è ancora in grado di comprendere appieno la rivoluzione in atto e i ratings non premiano i primi coraggiosi tentativi fino al momento in cui Twin Peaks apparirà sugli schermi nel 1990. La prima stagione è un successo al di là di ogni aspettativa sia per in termini di ascolti che per l’eco che riesce a raggiungere, per il dibattito che riesce a creare. Tutto ciò, però, dura pochissimo perché già con la seconda stagione si assiste ad un vero e proprio tonfo che porterà poi alla cancellazione. Lo spettatore di allora, infatti, è sì alla ricerca di nuovi stimoli, di un cambiamento ma non è ancora così maturo da coglierlo: non è allenato a interfacciarsi con una complessità narrativa e stilistica che aumenta a dismisura e con queste serie che giocano direttamente con lui, lasciandogli indizi qua e là.
Bisognerà aspettare ancora i primi anni 2000 per vedere le cose finalmente cambiare: è HBO ad alzare sempre più in alto l’asticella della Quality Tv ma è una sfida che verrà colta anche dai principali network e interpretata al meglio dall’ABC. In quegli anni nessuno si dimostra più al passo con i tempi e dopo una lunga crisi rinasce grazie a prodotti come Desperate Housewives e Grey’s Anatomy ma è con Lost che finalmente la rivoluzione ha inizio.
2. Lost come driver del cambiamento
Non si fa alcun torto al genio di David Lynch dicendo che Twin Peaks è l’antenato di Lost: non nella trama ma nella complessità, nel cercare di stimolare lo spettatore con qualcosa di mai visto prima. Entrambe le serie hanno fatto della sperimentazione nei linguaggi televisivi la loro firma principale ma Lost ha avuto il pregio di riuscire lì dove Twin Peaks aveva fallito: è infatti la prima serie tv scritta secondo le nuove regole che non solo riesce a ottenere un successo clamoroso ma che è anche in grado di mantenerlo fino all’ultimo episodio, attirando costantemente l’attenzione del pubblico di massa.
Lost è rivoluzionario perché si tratta della serie che prima di tutte porta il pubblico alla sua maturazione: più la complessità aumenta e più il fandom si ritrova davanti a un puzzle intricato ma che adesso sa di poter ricomporre pezzo per pezzo. È questa consapevolezza che cambia le carte in tavola, il rito di passaggio verso l’età adulta che si compie nel momento in cui Lost invita il pubblico a giocare con essa chiedendo in cambio il massimo dell’attenzione. È un prodotto che come Twin Peaks offre allo spettatore più tipologie di visione, da quella più legata alla soap a quella “gaming” in cui l’interesse principale è dato dall’esplorazione degli indizi che il mondo narrativo propone.
Ciò che rende Lost così importante è che questo secondo aspetto non si arresta mai: ogni nuovo cliffhanger, ogni nuova scelta narrative spinge lo spettatore a indagare ancora e ancora mentre in Twin Peaks l’attenzione del pubblico di massa era più concentrata sul risolvere l’assassinio di Laura Palmer e meno sul magnifico universo narrativo ideato da Lynch. E così quindi l’autoreferenzialità diventa cifra stilistica e la trama orizzontale trionfa su quella verticale.
Ma c’è anche un altro aspetto per cui Lost scava un solco che lo distingue da tutte le serie precedenti e che apre la strada a un modo di concepire i prodotti che oggi è più attuale che mai: la sua transmedialità.
3. Il transmedia storytelling alla prova della serialità
Innanzitutto una definizione che ci fornisce uno dei più grandi studiosi in materia di transmedialità ma anche di fandom, l’accademico americano Henry Jenkins:
«si tratta di un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata».
Tirando le somme: non parliamo di disseminare contenuti su varie piattaforme ma di un progetto creativo che dà il là a nuovi filoni narrativi, a universi immaginativi più complessi dell’originale, scavando in profondità in essi e nelle tematiche proposte puntando quindi sempre a valorizzare il singolo mezzo attraverso cui si decide di agire.
Ciò che cambia con Lost è che si tratta del primo prodotto televisivo compiutamente transmediale: non una strada da battere a seguito del successo della serie ma un vero e proprio progetto che espande l’universo narrativo originale in più narrazioni e in più dimensioni. Anche in questo campo ha il primato di essere il prodotto transmediale attraverso cui questo approccio diventa mainstream.
C’è uno scambio continuo tra i suoi produttori e il pubblico che gioca con quel che viene proposto uno volta alla settimana e per il resto dei giorni espande l’universo narrativo grazie a prodotti come i mobisode, giochi per console, pc e telefoni, una collana di fumetti, un libro e una serie di alternative reality game come The Lost Experience costruendo così pezzo per pezzo un’esperienza che prima di allora semplicemente non esisteva. La serie diventa quindi una sorta di scheletro narrativo – sia a livello di trama che di personaggi – che va oltre la singola visione, sollecitando quindi una caratteristica fondamentale del fandom odierno ossia quello di essere egli stesso produttore di contenuti.
Lost è l’anno zero della serialità per come la conosciamo e come la viviamo oggigiorno e pur con i suoi difetti è stato il prodotto giusto al momento giusto, rendendo il suo modo di fare tv uno standard che ha influenzato tutti gli altri e le loro modalità di interazione col pubblico. Non è una serie perfetta ma senza quella esperienza non ci sarebbe gran parte di quel che oggi consideriamo la normalità. E scusate se è poco.
Inauguriamo oggi una rubrica che tornerà a cadenza ciclica, #ilbiancoeilnero, dedicata per l’appunto al cinema in bianco e nero, una delle mie più grandi passioni. E allora, perché non iniziare proprio con Fritz Lang, universalmente noto come uno dei migliori registi di sempre? Una filmografia impressionante per quantità e qualità, un talento che nasce sotto la Repubblica di Weimar: sono gli anni di massimo splendore dell’Espressionismo tedesco, del cinema muto e di pellicole indimenticabili come Il Dottor Mabuse o Metropolis. Costretto alla fuga dalla Germania dopo un incontro con Goebbels che voleva farne il regista per eccellenza del nazismo, si rifugerà prima in Francia e poi negli Stati Uniti firmando un contratto con la MGM che gli consentirà di avere una lunga e proficua carriera hollywoodiana toccando nuove vette artistiche con il noir e sperimentando nuovi generi come il western.
Il suo cinema vive di simbolismi curati maniacalmente con una fotografia sempre emblematica, un cinema cupo che si sofferma sui lati più bui dei suoi personaggi, sulle loro peggiori pulsioni, che indaga appieno la fascinazione per il male e con l’ossessione per il tempo sempre ben presente in scena.
E allora come non parlare di uno dei suoi capolavori, M – Il mostro di Düsseldorf? Pellicola del 1931, segna l’esordio di Lang nel sonoro – e che esordio – e ha come protagonista un serial killer che prende di mira i bambini. Si tratta di un personaggio di cui non conosciamo il volto per gran parte del film perché così può confondersi facilmente tra la folla, essendo lui stesso un individuo come tanti, il prodotto di una società in decadenza. Lo sguardo di Lang, però, è più ampio e non si limita a parlare soltanto del mostro ma prende vita anche attraverso la caccia al killer che scatena gli istinti più bassi della massa resa isterica dalla paura e dal desiderio di vendetta ma soprattutto dalla mancanza di un ordine che ne regolava la vita fino ad allora.
La costruzione della tensione nella sequenza iniziale
“Scappa, scappa, monellaccio, sennò viene l’uomo nero col suo lungo coltellaccio per tagliare a pezzettini… Proprio te”
Ci sono film che si prendono tempo per crescere e ci sono film che fin dall’inizio catturano l’attenzione: M – Il mostro di Düsseldorf, senza ombra di dubbio, appartiene a questa seconda categoria grazie alla sequenza iniziale costruita in maniera magistrale. È infatti sfruttando le nuove potenzialità offerte dal sonoro che Fritz Lang apre questo film e lo fa con una serie di suoni e fischi inquietanti mentre sullo schermo non c’è nessuna immagine, solo un riquadro nero che ha l’effetto di creare attesa nello spettatore.
Qualche secondo dopo sentiamo la voce di una bambina che recita una filastrocca molto sinistra insieme ai suoi amici, quella dell’Uomo Nero. Si tratta di una scelta che introduce quindi il tema del film e M, il suo protagonista, lo psicopatico che uccide bambini, la cui presenza aleggia in scena fin da subito.
Successivamente le scene si spostano all’interno del palazzo, quasi a volersi mettere al riparo dalla minaccia, e due donne scambiano qualche parola su M mentre una di queste si ritira in casa per lavare la biancheria. Qui viene mostrato plasticamente per la prima volta il concetto di tempo grazie al cucù che segna le ore 12 e un sorriso rassicurante si fa strada sul viso della donna. E così ci ritroviamo di nuovo all’esterno, davanti l’uscita di una scuola: qui incontriamo Elsie e compare in scena anche M per la prima volta.
La maestria di Lang sta tutta in questa scena, famosissima: la camera si ferma sul manifesto dove viene riportata la taglia posta sulla testa di M quando proprio lì comincia a stagliarsi l’ombra dell’uomo che fa sentire la sua feroce presenza, uno stratagemma stilistico che non fa che aumentare il senso d’ansia nel pubblico.
È arrivato il momento di capitalizzare quanto mostrato finora e Lang non si lascia scappare l’occasione per costruire perfettamente una tensione sempre più palpabile e lo fa alternando le scene in maniera più serrata ma non rapida perché il senso di suspense e la cura del dettaglio devono rimanere protagonisti. L’orologio segna le 12.25 e la camera torna alla donna che ormai non sorride più: sente dei passi sul pianerottolo e spera di trovarvi Elsie – che scopriamo essere sua figlia – ma le bambine dicono di non averla vista. Lang torna su M che ci viene mostrato di spalle, creando ulteriore tensione, che è intento a comprare un palloncino per Elsie mentre sua madre parla con il postino chiedendo se per caso sa qualcosa della figlia.
L’inquadratura successiva vede la donna che fissa la tromba delle scale da cui non viene alcun rumore: prova a chiamarla ancora e ancora, sempre più disperatamente, ma dagli spazi vuoti ripresi non provengono segni di vita, né della bambina né di nient’altro. È il presagio della tragedia che sta per accadere.
Siamo ormai giunti al culmine della sequenza, il momento in cui il pubblico non si fa più illusioni e aspetta soltanto di vedere l’incubo realizzarsi. Lang, ancora una volta, sceglie di non mostrare direttamente l’accaduto: il corpo senza vita di Elsie non viene rivelato, in scena compare la sua palla che rotola su un prato mentre il palloncino da poco comprato va a incagliarsi tra i fili dell’alta tensione. L’omicidio è compiuto e i sette minuti impiegati per raggiungere questo climax che li accompagna sono tra i migliori mai realizzati nella storia del cinema.
E poi?
Per definire M – Il mostro di Düsseldorf come un capolavoro bastano questi pochi minuti, un crescendo emotivo che con poche immagini e pochi suoni alternati in un montaggio perfetto, riesce a catturare completamente il pubblico. È solo l’incipit ma i dettagli contano e raccontano meglio di tanto altro cos’è il cinema di Fritz Lang: il suo è un punto di vista originale, accompagnato da una fotografia fortemente evocativa, che non si concentra sull’efferatezza degli omicidi ma che ci restituisce uno sguardo d’insieme più ampio che racconta del panico e dell’isteria che attraversa la città dopo l’ennesimo omicidio irrisolto, una massa informe che chiede a gran voce giustizia e che in nome di essa accusa chiunque. Ancora più interessante è la scelta di coinvolgere anche gli altri criminali della città, che stanchi di essere vessati dalla polizia alla ricerca di M, decidono di prendere l’iniziativa e cercarlo, ergendosi a giudici e portando quindi sullo schermo l’opposizione tra il farsi giustizia da sé e la necessità di seguire le vie ufficiali.
Ma ciò che rende M un protagonista atipico è che indubbiamente si tratta di un mostro, di un assassino che si è lasciato dietro una scia di morti ma è anche un uomo come tanti: l’interpretazione che ne offre Peter Lorre è sublime, con quegli occhi strabuzzati, iniettati non di furia e violenza ma di paura che contrastano con le sue azioni. Lì dove ci si aspetta l’Ombra più cupa ci si ritrova a guardare un uomo in lotta contro sé stesso e i suoi demoni, incapace di dominare le proprie pulsioni e che, pur rimanendo un feroce assassino, riesce ad affascinare il pubblico in tutta la sua miseria sublimata nel monologo finale.
È questa figura che consegna alla storia l’esordio di Lang al sonoro perché M è rappresenta tutto quello verso cui il cinema e la letteratura e l’arte tendono: esplorare le zone moralmente ambigue, rivelare la vera natura umana mettendo il pubblico nella scomoda posizione di doversi fermare a riflettere. Un capolavoro senza tempo.
È il giorno del tuo ottantacinquesimo compleanno. Ti svegli e trovi la tua famiglia davanti a te. Hanno un regalo. Sei felice. O meglio, dovresti, ma non è proprio così. “Io non mi chiamo Miriam”, dici. Perché il tuo nome, la tua storia è una bugia lunga settantacinque anni. E adesso sei stanca, vuoi tornare ad essere Malika. Ma rinneghi per l’ennesima volta te stessa, dai la colpa al sonno, alla vecchiaia ma ormai sai che è solo questione di tempo prima che tu venga smascherata. E forse è proprio quello che vuoi.
Questo è l’incipit di “Io non mi chiamo Miriam”, il romanzo di Majgull Axelsson edito da Iperborea che ruota attorno ad un presente fatto di bugie e un passato segnato dall’orribile esperienza dei campi di concentramento. Perché lì Miriam non ha soltanto perso ogni forma di dignità, l’amatissimo fratellino Didi ma anche sé stessa, Malika.
Ora morirà nel modo in cui era convinta che sarebbe morta fin dai tempi di Ravensbruck […]. Perché lei è quella che è. Non una normale ebrea schifosa. Qualcosa di peggio. Una rom. Una zingara. E una bugiarda.
Ammassata in uno di quei treni della morte la nostra protagonista viene linciata per un tozzo di pane, additata come ladra solo per il suo essere rom. E mentre è lì, scossa da tanta violenza, decide di rubare l’identità a Miriam, una ragazzina ebrea morta accanto a lei. Paradossalmente, nel microcosmo del campo e non solo, meglio ebrea che zingara. E sarà proprio questo a salvarle la vita e condurla in Svezia dopo alla fine della guerra.
Ma ben presto Miriam si rende conto che neanche l’essere sopravvissuta ad Auschwitz può aiutarla a reclamare Malika perché il pregiudizio contro i rom è ancora forte, impossibile da estirpare. Non c’è posto per quelli come loro neanche da vittime di un genocidio efferato, metodico, non hanno neanche il diritto di accedere ai risarcimenti.
E così Miriam è costretta a continuare la sua farsa, a chinare il capo per l’ennesima volta anche perché in Svezia è cominciata per lei una nuova vita, ha una nuova famiglia e tutti vogliono dimenticare quegli anni bui. Un castello di sabbia che crollerà nel giorno del suo compleanno quando finalmente deciderà di riconciliarsi con Malika e di confessare all’amata nipote Camilla chi è davvero. Ma il resto della famiglia sarà pronto ad accogliere questa verità?
In Svezia non c’erano zingari e anche se ci fossero stati non avrebbero di sicuro parlato alla radio: quello era un diritto riservato a chi aveva avuto il buon senso di nascere nelle famiglie giuste. I gage. Gente istruita. Persone che sapevano e conoscevano tutto e non mentivano mai. Persone che giravano con il sorriso stampato sulle labbra e si assicuravano a vicenda di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Majgull Axelsson regala un romanzo non perfetto ma sicuramente toccante e lo fa con una prosa molto asciutta, uno stile quasi distaccato. Una scelta che dà un’aura di realtà a quanto descritto, che permette al pubblico di esplorare le profondità del trauma vissuto da Malika e dal suo popolo. Una storia che meritava di essere raccontata.
Raccontare la storia attraverso gli oggetti: è questa la modalità prediletta attraverso cui Neil MacGregor firma le sue opere di saggistica. Lo storico dell’arte ed ex direttore del British Museum con questo volume si propone infatti non tanto di illustrare la vita di Shakespeare quanto di descrivere chi erano le persone che accorrevano numerose ai suoi spettacoli.
Quel che ne esce fuori è un ritratto affascinante di cos’era vivere in Inghilterra tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, un periodo storico segnato dalla coda lunga del regno di Elisabetta I e l’inizio di quello di Giacomo I, dalla profonda inquietudine che attraversava la popolazione alle soglie del nuovo secolo ma anche da un certo fermento che avrebbe portato l’Inghilterra ad affacciarsi da protagonista sulla scena mondiale.
Dinastie, lotte per la successione, congiure, epidemie che si susseguono periodicamente, fatti che segnano epoche ma lo sguardo di MacGregor si sofferma sui dettagli, sul racconto del quotidiano: porta il lettore dal palco alla platea, lo fa viaggiare tra le strade della Londra dell’epoca, a stretto contatto con la vita di tutti i giorni. Medaglie, forchette, spadini, berretti da apprendista, calici veneziani, orologi musicali e preziose reliquie ci descrivono un pubblico variegato, di ogni estrazione sociale che per qualche ora condivideva lo stesso luogo e in esso portava innovazioni e pratiche quotidiane.
Tutto ciò succedeva perché il teatro inglese era d’ispirazione commerciale, rivolto quindi a tutti: nel resto dell’Europa c’erano ancora i teatri di corte mentre in Inghilterra si frequentavano gli stessi spettacoli, chi in piedi, chi in galleria ma comunque l’accessibilità era garantita a chiunque. Il teatro era sì intrattenimento – una delle forme più popolari – ma aveva anche una funzione didattica poiché le rappresentazioni più in voga erano i drammi storici che permettevano al popolo di apprendere la storia nazionale, di rinsaldare un senso di unità. Era un teatro dove elementi storici e sovrannaturali si alternavano, dove il gusto del macabro la faceva da padrone sullo sfondo di un nazionalismo di forte successo.
Ma com’era assistere ad una pièce dell’epoca? È MacGregor a guidarci alla scoperta di tutto ciò: gli spettacoli si tenevano nel primo pomeriggio e costavano circa un penny, non c’erano intervalli e neanche bar all’interno perché il cibo veniva distribuito tra le sedute. Come ricostruisce lo storico inglese è proprio il quest’ultimo a darci un’idea delle divisioni sociali: molluschi, gusci di frutta secca e non ma soprattutto di ostriche (considerate cibo per i più poveri) sono stati rivenuti dove c’erano i posto in piedi. Le persone più ricche, invece, portavano da mangiare al sacco, comprese posate e bicchieri.
Interessante anche come MacGregor ricostruisce il rapporto degli inglesi dell’epoca con il tempo. Il ticchettio dell’orologio viene introdotto proprio durante l’era elisabettiana: prima di allora il concetto stesso dei minuti era molto astratto, si ragionava solo sulle ore e soprattutto gli orologi erano pochi e pubblici mentre queste innovazioni portarono a quelli domestici che cambiarono la percezione stessa del tempo. Un cambiamento epocale che ebbe conseguenze anche sul teatro: era infatti necessario che il pubblico fosse puntuale, che avesse il tempo di comprare il biglietto e da mangiare perché altrimenti lo spettacolo non poteva iniziare ed era assolutamente necessario finire prima che calasse il buio per evitare scontri e risse.
E così MacGregor mescola queste informazioni alle opere di Shakespeare mostrando come fossero influenzate da quel che succedeva intorno loro, dagli usi e costumi del tempo, dalla politica, influenzando a sua volta tutto ciò. Questo perché i suoi drammi e le sue commedie erano l’occasione migliore per metabolizzare paure e inquietudini che attraversavano la società di allora ma anche opere che tutt’oggi mantengono una carica emotiva capace di catturare il pubblico nonostante il passare dei secoli. Il mondo inquieto di Shakespeare è un’edizione fotografica bellissima, ricca di curiosità e fatti storici che racconta al meglio lo spirito del tempo.
Scaffali pieni, comodini scomparsi sotto il peso di tutti quei libri ancora da leggere e frasi come “giuro, non compro più niente!” a cui non si deve mai credere per definizione perché poi arriva l’estate e le case editrici ci trasformano puntualmente in quel che, ahimè, siamo: facili vittime del marketing letterario.
E anche questo 2021 non è stato da meno: comprando due libri, infatti, con l’Einaudi riceverete in regalo uno zainetto di tela (beige e antracite i colori tra cui scegliere) mentre l’Adelphi propone una sacca sempre in tela con i disegni di Tullio Pericoli. E allora qui di seguito i mie quattro consigli.
1. Einaudi (fino al 22/08)
a. L’ibisco viola // Chimamanda Ngozi Adichie
Per il suo esordio la Adichie firma un testo ambientato nella Nigeria post coloniale con una storia che ruota attorno al concetto del doppio, del pubblico vs privato. La nostra protagonista è Kambili, ha quindici anni, vive con suo fratello Jaja e i suoi genitori in una splendida villa. La sua sembra una famiglia perfetta vista da fuori: suo padre Eugene è amato dalla loro comunità, considerato un esempio di rettitudine morale e coraggio, un uomo generoso che combatte per la democrazia attraverso il suo giornale. Eppure, superata la soglia di casa, dietro la facciata di virtù si nasconde un mostro che tiene sotto scacco la sua famiglia con la violenza e il fanatismo religioso, incapace di accettare il minimo passo falso da parte delle persone che dice di amare.
In un quadro del genere arriva il colpo di stato che sconvolge la Nigeria ma anche la vita di Kambili e Jaja che improvvisamente si ritrovano a vivere con la sorella del padre, zia Ifeoma, una donna dal carattere tenace e indipendente, e i chiassosi cugini. E qui tutto cambia perché i due fratelli scoprono cosa vuol dire vivere in una casa allegra, piena di musica e affetto, dove finalmente possono cominciare ad assaporare la “libertà di essere, di fare“.
Un romanzo di formazione che come l’ibisco viola raro innestato da zia Ifeoma cerca di essere simbolo di fiducia, di possibilità anche quando la tua vita sembra già scritta. Un’autrice che dovreste assolutamente recuperare.
b. Yellow Birds // Kevin Powers
Un romanzo di guerra, anche in questo caso un esordio. John Bartle ha ventuno anni, sta per partire per l’Iraq quando fa quel che nessuno con una destinazione del genere dovrebbe fare: promettere alla madre del suo commilitone Daniel Murphy di riportarlo a casa vivo. Una promessa fatta con la spavalderia di chi, giovane e ingenuo, crede di essere invincibile prima che la guerra lo travolga e lo schiacci a terra irrimediabilmente perché è questo che la guerra fa, ti porta via tutta la tua umanità e ti lascia a fare i conti con il vuoto.
E Bartle torna a casa, sì, ma senza Murphy e con un senso di colpa devastante che lo divora vivo. E sfuggirgli diventa impossibile perché quando sei un sopravvissuto nulla può più salvarti da questa condizione, sarai sempre e solo questo nella tua testa ma soprattutto non sentirai mai davvero di essertelo meritato, non dopo tutta la morte e il dolore che hai vissuto, che hai causato. John è un’anima persa, vede Murphy ovunque, incapace di guarire da una guerra che lo ha completamente alienato dalla vita, da tutto quel che c’era prima di essere spedito al fronte.
Con una scrittura un filo di troppo lirica ma efficace Kevin Power costruisce un esordio molto solido, potente alternando flashback sull’Iraq e il racconto di cosa significhi tornare a casa da un inferno di cui non ti potrai mai davvero liberare. Un romanzo sulla perdita dell’innocenza ma soprattutto della speranza.
II. Adelphi (fino al 15/08)
a. Limonov // Emmanuel Carrère
Carrère non ha certo bisogno di troppe presentazioni essendo uno degli autori di punta dell’Adelphi, soprattutto quando sale in cattedra e scrive biografie come solo lui sa fare. In questo caso ci fa conoscere in personaggio tanto affascinante quanto bizzarro: Ėduard Limonov.
Sconosciuto ai più ma personaggio certamente personaggio interessante che partendo dai bassifondi vive con l’unico obiettivo di emergere, di lasciare un segno. Una vita controcorrente vissuta sullo sfondo di una Russia agitata da mille fermenti e tormenti, il contesto perfetto dove un uomo senza scrupoli come Limonov si muove benissimo arraffando potere qua e là tra picchi di gloria e rovinose cadute.
Ed è proprio qui che Carrère cala l’asso con quella che è anche la cifra della sua arte: saper inserire sé stesso anche quando si parla della vita di qualcun altro senza mai risultare fuori luogo. D’altra parte, però, Limonov è anche l’occasione perfetta per affacciarsi sul mare tumultuoso che è la Russia di oggi grazie ad una raffinatissima analisi storico-politica che si sofferma soprattutto sui febbrili anni Novanta quelli disgregazione dell’URSS, della Perestrojka ma anche del vuoto di potere colmato da Putin e dell’opposizione al suo regime condotta con Garri Kasparov.
Il vero protagonista del libro? Lo scontro epico tra l’ego di Carrère e Limonov. Imperdibile.
b. La variante di Lüneburg // Paolo Maurensig
Un gran romanzo che deve molto, moltissimo a un capolavoro della letteratura mondiale, Novella degli scacchi di Stefan Zweig (ancora non lo avete letto? Ma cosa state aspettando!), un omaggio grazie a cui Maurensig riesce nell’impresa di non sfigurare al confronto.
Dieter Frisch, un ricco uomo d’affari tedesco molto in vista nei circoli scacchistici, viene trovato morto. Omicidio? Suicidio? Esecuzione? Le ipotesi si susseguono ma soprattutto si legano a doppia mandata con gli scacchi e i campi di concentramento. E allora Maurensig svela in una concatenazione di flashback cosa sia successo partendo dall’ultimo viaggio in treno di Frisch trascorso a giocare a scacchi quando nel suo vagone emerge la figura di Hans Mayer, un giovane ex campione di scacchi che gli racconta la sua storia e dell’uomo che l’ha cambiata per sempre: il maestro Tabori.
Ma chi è in realtà quest’uomo? E come si intreccia con la morte di Frisch? E quale parte gioca in tutto ciò l’Olocausto nella narrazione? Un romanzo gestito benissimo che si destreggia con maestria sul filo di lana tra mosse e contromosse ideate per costruire un cliffhanger finale emotivamente devastante. Una scrittura elegante che si innesta su un testo ben strutturato in grado di trasformare gli scacchi in un’avvincentissima arma.
…ma qual è stato il mio bottino?
Ebbene sì, come era facilmente prevedibile anch’io da buona vittima del marketing letterario non mi sono fatta scappare questa promozione. Per quanto riguarda l’Einaudi la parola d’ordine è stata una e una soltanto: letteratura americana, la mia comfort zone per eccellenza con l’acquisto dell’ultimo libro che mi rimaneva da leggere di Cormac McCarthy, il mio scrittore preferito, Il guardiano del frutteto. Per ogni storia che finisce, però, ce n’è una che ne inizia quindi ho finalmente deciso di recuperare un grandissimo scrittore che non vedo l’ora di leggere: John Fante con Aspetta primavera, Bandini.
Per ottenere la sacca Adelphi, invece, due scelte tutte al femminile per due scrittrici di cui ancora non ho mai letto niente: I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy e I cani e i lupi di Irène Némirovsky. Quale miglior occasione per iniziare se non questa?
Questa è la storia di Diego e Olmo, due fratelli legati da un amore profondissimo ma alle prese con demoni troppo grandi da combattere, e di Nonno Aime, un uomo burbero che cerca disperatamente di tenere insieme i pezzi della sua famiglia. Questa, però, è soprattutto la storia di quei mesi trascorsi nella baita comprata dai genitori poco prima di morire e di quell’estate che ha cambiato per sempre il corso delle loro esistenze.
“Impara a fidarti di chi ti ama. È la lezione più difficile che la vita t’insegna”.
Olmo ha solo tredici anni e una grande passione per il modellismo, per quei pezzi che s’incastrano alla perfezione mentre nella sua vita non c’è più niente che segua uno schema. È ancora lì intento ad elaborare il lutto quando vede suo fratello perdersi sempre più in sé stesso, nelle proprie ansie e inquietudini, nella rabbia. La lucidità di Diego, infatti, sta svanendo sempre più velocemente mentre si isola in un mondo in cui il fratello e il nonno non possono raggiungerlo sebbene farebbero di tutto pur salvarlo e tenerlo stretto a loro. È proprio in un momento di crisi molto intensa che i tre decidono di trasferirsi nella baita di famiglia con la speranza che andare in un posto tranquillo, immerso nella natura possa in qualche modo aiutare Diego a stare meglio.
Un’estate che sembra quindi essere un nuovo inizio per i due fratelli: nuovi amici e amori, un lavoro, una ritrovata fiducia nel futuro. Eppure una certa irrequietezza resta sempre sullo sfondo mentre Olmo e Nonno Aime tentano disperatamente di far sì che le cose vadano per il verso giusto finché Diego non commetterà un passo falso troppo grande agli occhi della piccola comunità che li ha accolti e tutto crollerà. Nonno Aime e Olmo, però, non hanno certo paura di guardare in faccia il dolore, di sentirlo nelle ossa e di farsi travolgere da Diego, dalle voci nella sua testa e dalla sua malattia perché questo significa essere una famiglia, amarsi, anche quando il prezzo da pagare è così alto.
“Pensavo fosse più facile smettere di voler bene”. “Certo che lo è”, risponde. “Ma ho dimenticato d’insegnartelo”.
“Luce rubata al giorno” ruota attorno al concetto di tensione ammissibile: qual è il punto di massimo sforzo che un edificio può sopportare prima di collassare? E quanti demoni possono sconfiggere i nostri tre protagonisti prima di soccombere? Riuscirà questa famiglia a resistere come l’Empire State Building travolto dal Bomber-25 oppure crollerà definitivamente? Emanuele Altissimo firma un libro d’esordio che racconta un dolore profondissimo ma lo fa attraverso la delicatezza degli occhi di un ragazzino come Olmo che nonostante tutto non può accettare di perdere suo fratello. Una scrittura elegante, un autore da tenere d’occhio.
È il 2017 quando Joe Biden dà alle stampe il suo memoir, quello in cui racconta i quindici mesi che l’hanno portato alla decisione più importante della sua carriera politica: non presentarsi alle primarie democratiche che l’avrebbero visto scontrarsi con Hillary Clinton e Bernie Sanders, primarie che avrebbero anche potuto lanciarlo verso la sfida contro Donald Trump.
Ci sono però momenti della vita dove trentasei anni da senatore del Delaware e nove da vicepresidente dell’amministrazione Obama – una vita intera a servizio del proprio Paese – passano inevitabilmente in secondo piano, quelli in cui è necessario imparare a convivere con un lutto devastante che ti porterai dietro per sempre: Beau, il maggiore dei suoi figli, muore dopo un lungo calvario fatto di speranze, coraggio ma anche di dolore e di impotenza davanti ad un male troppo grande per essere battuto, un glioblastoma al cervello.
Non fatevi, ingannare, però, Papà, fammi una promessa non vuole essere (soltanto) il racconto della malattia di Beau (peraltro vissuta nel massimo riserbo, lontana dai riflettori) quanto un atto d’amore: Joe Biden celebra così suo figlio ma anche e soprattutto la forza della propria famiglia, il legame indissolubile che li lega e l’amore profondo che li tiene uniti anche dinanzi ad un vuoto così grande, quel vuoto che si è già trovato ad affrontare anni addietro quando la prima moglie Neilia e la figlia Naomi morirono in un incidente stradale.
L’aspetto più interessante di questo testo è senz’altro quello per cui Joe Biden si ritrova a fronteggiare quei quindici mesi di lotta contro il glioblastoma mentre è ancora il vicepresidente degli Stati Uniti, impegnato fortemente in politica estera: scenari come quello dello scontro Ucraina-Russia, l’Iraq, la lotta all’ISIS e il panorama politico centroamericano si dipanano in contemporanea ad una vita fatta anche di stanze d’ospedale, di tentativi di cure, di deterioramento fisico in un calderone di emozioni che travolge il lettore. Cosa bisogna fare in momenti del genere? È giusto mettere da parte gli impegni per stare con la propria famiglia, accanto a Beau? Impossibile: questa, nonostante tutto, non è mai stata una vera opzione sul tavolo dei Biden.
«Trova uno scopo. Non importava cosa mi aspettasse: mi aggrappavo al mio scopo. Mi aggrappavo con tutto me stesso. Temevo che tutto il mondo sarebbe potuto crollare se avessi perso quell’ancora e avessi lasciato che la lotta di Beau mi consumasse. Non volevo deludere il mio paese, l’amministrazione Obama, la mia famiglia, me stesso e soprattutto non volevo deludere il mio Beau».
Difatti ciò che salta subito all’occhio leggendo questo libro è un fortissimo senso del dovere, dello stato, dell’impegno che Biden ha preso quarant’anni prima con il Delaware, l’America ed è anche lo stesso Beau il primo a volere che suo padre non si tiri indietro a causa sua. “Promettimi che starai bene”, continua a ripetergli e non parla mai di come sopravvivere a una morte che sa essere nell’orizzonte delle possibilità ma semplicemente non vuole che suo padre venga meno a quella responsabilità verso il prossimo, a quella vita dedicata al proprio paese.
Ciò che emerge chiaramente è l’autenticità del racconto di Joe Biden: sì, c’è un filo di retorica di troppo che viene fuori durante la lettura – la forza, il coraggio, il non arrendersi mai nonostante tutto – ma anche una retorica molto americana, costruita sul fatto di sentirsi un po’ i salvatori del mondo e mai i colpevoli di tanta distruzione che però si supera abbastanza agilmente perché il prossimo presidente USA risulta vero, racconta uno squarcio di vita famigliare senza risparmiarsi elaborando un lutto così grande assieme al lettore. Si mette a nudo, ripercorre fatti, eventi, particolari, racconta il dietro le quinte della sua vita, della sua famiglia ma anche del suo rapporto di profondissima amicizia che lo lega a Barack Obama e ne traccia un ritratto che aggiunge nuove sfaccettature a una figura così importante. Una testimonianza che non scade mai nel melenso ma che colpisce il lettore perché nonostante le innumerevoli differenze che esistono tra un politico di questo rilievo e il pubblico a cui si rivolge il dolore colpisce tutti, ci fa piangere e ci avvicina anche quando sembra impossibile.
«Dal momento in cui è mancato, ogni giorno indosso al polso il rosario di Beau per ricordarmi cosa lui si aspettava da me. Dovrò assolvere a questo mio dovere, per sempre. Dovrò fare il mio lavoro di marito, padre e di nonno. […] Ma il vero punto non è la famiglia. Beau sapeva quanto è solida, sapeva che non c’è onda così forte che possa separarci. […] Beau era preoccupato che mi ritirassi dai miei obblighi verso il mondo esterno. Beau insisteva perché restassi fedele a me stesso e a tutte le cose a cui avevo lavorato per anni».
Papà, fammi una promessa è il modo attraverso cui Biden decide di raccontare perché non poteva candidarsi a quelle primarie – un lutto tutto da elaborare, una famiglia da tenere unita, legami a cui aggrapparsi – ma è anche e soprattutto il racconto delle motivazioni che lo hanno spinto a questa nuova discesa in campo che a gennaio lo porterà a diventare ufficialmente il 46° Presidente degli Stati Uniti, una nazione che mai come ora sembra essere attraversata da profonde divisioni e ferite che richiederanno tempo e fatti concreti per essere risanate dopo quattro anni di amministrazione Trump. È così che manterrà la parola data a suo figlio perché il desiderio più grande di Beau in quei quindici mesi è sempre stato soltanto uno, che la propria morte non portasse suo padre ad allontanarsi dalla vita pubblica americana, che era importante che tenesse fede a quell’impegno preso più di quarant’anni fa prima come senatore, poi come VP e ora come prossimo Presidente. Casa base, papà, casa base, come dicono i Biden.
Fra le conseguenze peggiori – si fa per dire, ovviamente – dei mesi di quarantena possiamo senz’altro annoverare il blocco del lettore più intenso mai sperimentato in vita mia che mi ha restituito una me stessa totalmente incapace di contrarsi su qualsiasi cosa, figuriamoci sui libri. Poi è arrivato Normal People e ogni cosa è tornata al suo posto: una notte, semplicemente, l’ho preso fra le mani, ho cominciato a sfogliarlo e per ore e ore mi sono immersa in Connell e Marianne, nelle loro storture, nelle loro paure. Ed è stato emotivamente devastante.
Ma non è un po’ questo l’intento primario della letteratura? Quel che voglio quando leggo è qualcosa che abbia la forza di scuotermi dentro, di portarmi a riflettere sul mondo ma soprattutto su me stessa: ci sono libri difficili da leggere perché toccano corde che non volevi fossero sollecitate eppure succede e non puoi fare altro che accettarlo. Normal Peolple è un testo, una storia che arriva lì, dove senti nascere quel magone al centro del petto.
«Essere solo con lei è come aprire una porta e chiudersi alle spalle la vita normale».
Marianne e Connell sono due ragazzini quando fra di loro nasce qualcosa: sì, qualcosa è la definizione più giusta per descrivere quel che c’è fra i nostri due protagonisti che, frenati dalle loro paure e fragilità, non riescono mai davvero a guardarsi negli occhi e a dirsi la verità. È amore? Sì, indubbiamente. Uno di quelli scostanti, che lasciano macerie, di cui non sei mai davvero consapevole. O forse lo sei ma non vuoi ammetterlo innanzitutto a te stesso.
L’adolescenza segna l’inizio della loro storia: lei di buona famiglia, lui figlio della donna delle pulizie, compagni di classe. Lei chiusa, lui apparentemente estroverso. Lei presa di mira da tutti, lui fra i ragazzi più popolari. Eppure qualcosa li attrae irrimediabilmente: ne nasce una relazione clandestina fatta di tanti silenzi e di corpi che non riescono a stare lontani, di sguardi che non devono mai incrociarsi a scuola, di distanze che devono rimanere tali senza poi chissà quale motivo e di tanta vergogna per un rapporto che neanche loro riescono davvero a gestire, figurarsi cosa potrebbe significare rivelarlo agli altri.
Sally Rooney segue la traiettoria di queste due vite sempre intrecciate ma mai capaci di accettarlo anche negli anni universitari: entrambi a Dublino vedono i loro ruoli ribaltarsi e il contesto sociale diventa improvvisamente una componente importante. Qui, dopo una breve separazione, Connell scopre che Marianne è diventata popolare, ha intorno a sé delle persone e sembra quindi essere uscita dal suo guscio. Di contro lui vive la realtà delle difficoltà economiche ma anche e soprattutto il ritrovarsi a non essere più il ragazzo popolare del liceo ma un’anima che rivela tutta la sua fragilità. Ma basta uno sguardo affinché quella miccia si riaccenda, affinché il destino trovi nuovi modi di legarli ancora più indissolubilmente.
«Lei intuisce che ci sono cose che non le sta dicendo. Non capisce se stia reprimendo il desiderio di allontanarsi o il desiderio di rendersi più vulnerabile».
«Il suo sguardo lo destabilizza come un tempo, come quando ti guardi allo specchio e vedi qualcosa che per te non ha segreti».
Connell e Marianne sono l’uno il rifugio dell’altro. Non c’è un momento del testo in cui non ne sono intimamente consapevoli, un momento in cui c’è bisogno di realizzare quel che provano. Eppure è proprio questa consapevolezza che li riempie di terrore, come se quei sentimenti fossero troppo da gestire. Si sentono così esposti l’un verso l’altro che fuggire da tutto ciò diventa spesso l’unica soluzione al sentirsi vulnerabili. E così lasciano che tutto vada alla deriva. Ma mai fino a spezzare definitivamente quel legame che li tiene insieme e a cui non possono permettersi di rinunciare perché altrimenti non saprebbero più chi sono: è il loro rapporto che li definisce, che li fa sentire persone normali ma è anche tutto quel che li fa sentire vulnerabili. E quindi la fuga è sempre lì a portata di mano.
La semplicità con cui Sally Rooney tesse un legame così complicato è disarmante: la scrittrice irlandese ha dalla l’eccezionale capacità di entrare nel profondo dei suoi personaggi, di dare loro una multidimensionalità che non li fa essere soltanto verosimili ma anche veri, reali. Tre sono le scelte che restituiscono tutto ciò: avere sia il punto di vista di Marianne che di Connell, l’introspezione psicologica di entrambi che permette una lettura completamente immersiva e la mancanza di virgolette nei dialoghi che crea un senso di smarrimento, di confusione ma che così facendo restituisce la sensazione del tumulto interiore vissuto dai protagonisti. In un rapporto fatto di poche parole e di tanto orrore per sé stessi, Sally Rooney è capace di catturare con poche immagini il senso di estraneità alla vita di Connell e di Marianne ma anche di restituire un ritratto non molto lontano dal concetto di amore e della sua evoluzione nella nostra società, di come i giovani concepiscano oggi le relazioni e di come l’ansia di un futuro incerto abbia cambiato per sempre il nostro sguardo.
«Per tutti questi anni sono stati come due pianticelle che condividono lo stesso pezzo di terra, crescendo l’una vicino all’altra, contorcendosi per farsi spazio, assumendo posizioni improbabili».
Normal People, però, non è soltanto un libro ma anche una serie tv prodotta in Irlanda per BBC Three e Hulu. La trasposizione di un libro dove l’introspezione psicologica la fa da padrone non è mai un’impresa semplice: rendere su schermo il tumulto interiore è sempre operazione delicata a maggior ragione quando hai a che fare con due personaggi come Connell e Marianne che non riescono ad ammettere i loro sentimenti neanche a sé stessi e che si muovono in un contesto dove la trama è molto scarna, dove succedono pochi fatti e sostanzialmente tutti relativi alla loro dinamica relazionale.
Nonostante questa premessa l’adattamento di Normal People per la tv è un’operazione decisamente riuscita: innanzitutto contribuisce al successo anche la struttura stessa della serie suddivisa in dodici episodi con un minutaggio che al massimo arriva ai 34 minuti di girato, scelta che rende il tutto molto intenso giocando al meglio con l’empatia dello spettatore che si sente davvero travolto da ciò che passa dinanzi i suoi occhi. La serie poi deve tanto, tantissimo a Daisy Edgar-Jones e di Paul Mescal che hanno saputo dare vita ai loro personaggi in maniera magistrale grazie soprattutto alla chimica che si respira nelle loro scene, che fa li sembrare così vivi e vividi sulla scena.
«Mi sei mancata. Con gli altri non è così. Beh, io ti voglio molto più degli altri. La bacia di nuovo e lei sente le sue mani addosso. È un abisso che lui può penetrare, uno spazio vuoto che può riempire».
A tutto ciò si unisce anche la questione per cui, in una serie dove c’è tanto silenzio e tanto timore di confessare i propri sentimenti, il corpo diventa centrale: il modo in cui i due si guardano, si sfiorano, si cercano costantemente sulla scena dà sostanza stessa al loro rapporto, riempendo i vuoti che le loro paure si lasciano dietro anche con tanto, tantissimo sesso che non è mai lontanamente gratuito o ammiccante ma che restituisce sempre un senso potentissimo di intimità, di quelli che ti lasciano i brividi lungo la schiena. La camera che indugia costantemente sui corpi, sul sudore, sui dettagli ci mostra una Marianne che lascia andare via quella orribile sensazione di non essere degna d’amore e un Connell che in lei trova il suo posto nel mondo perché Normal People è un quel che potremmo definire un racconto di formazione sentimentale, un faticosissimo viaggio nel mondo delle emozioni, di quelle malinconiche che ti lasciano l’amaro in bocca ma che vale sempre la pena vivere.
Scegliere cosa guardare su Netflix è ormai diventata una vera e propria impresa grazie ad un catalogo sempre più vasto che richiede una discreta quantità di tempo per decidere cosa selezionare. Oggi voglio quindi segnalarvi due film che hanno catturato la mia attenzione durante le ultime settimane grazie al loro ritmo serratissimo: il primo, “Contrattempo”, è una produzione spagnola diretta da Orion Paulo (che ha anche avuto un remake italiano con protagonisti Miriam Leone e Riccardo Scamarcio) e il secondo, “Good Time”, è stato firmato dai fratelli Safdie e presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2017.
1. Contrattempo (2016, Spagna)
Adrián Doria è un ricco imprenditore accusato del brutale omicidio della sua amante Laura per il quale si è sempre proclamato innocente: le prove contro di lui, però, sembrano essere schiaccianti e con il processo in dirittura d’arrivo la sua ultima chance è l’avvocato Victoria Goodman, esperta nel preparare gli imputati per le deposizioni e nel tessere strategie difensive al limite dell’impossibile. I due metteranno a punto un piano per affrontare il processo ma in cambio Victoria avrà bisogno che il giovane le racconti la verità in tutti i suoi minimi dettagli. Sarà disposto a farlo? Ed è davvero tutto come sembra?
Thriller godibilissimo che si svolge su due piani temporali: nel presente all’interno della stanza dove Adrián e Victoria si confrontano e nel passato, grazie ai flashback, dove ricostruiamo le vicende che hanno portato alla morte di Laura. Il film è sostanzialmente un gioco che avvolge lo spettatore, che tiene la sua attenzione altissima portandolo a concentrarsi sui dettagli, sulle possibili spiegazioni per poi andare dritti al punto demolendo qualsiasi ipotesi quando sembra essere arrivati ad un passo dalla verità: questo effetto è dato anche dalla scelta di mostrare la storia soltanto dal punto di vista del protagonista, spostando l’attenzione poi non solo sull’azione ma anche sul dilemma morale che ne scaturisce. Dopo un inizio abbastanza lento (e qualche scelta narrativa che sembra un po’ forzata), il tutto si riprende alla grande costruendo perfettamente la tensione che porterà poi alla rivelazione finale (anzi, si può dire che è proprio il cliffhanger a dare forza al film stesso).
2. Good Time (2017, USA)
Connie, delinquente di periferia, è assolutamente deciso a tirare fuori di prigione suo fratello Nick (affetto da un handicap mentale) che è stato catturato dalla polizia a seguito del tentativo di rapina dei due e finito poi in ospedale dopo un pestaggio. Connie cerca quindi disperatamente di salvare Nick da sé stesso, da un sistema che non è in grado di gestire la sua disabilità in una rocambolesca avventura nei bassifondi di New York e della sua microcriminalità.
Film ansiogeno dei fratelli Safdie (qui vediamo Ben vestire anche i panni dell’attore impersonando Nick e i suoi occhi smarriti, il suo capire e non capire) che vede come protagonista uno strepitoso Robert Pattinson cimentarsi in quella che è sicuramente fra le migliori performance nella sua carriera. Una narrazione a tratti morbosa che trascina lo spettatore in questa corsa contro il tempo per salvare Nick eppure, per quanto Connie si sforzi, ogni tentativo, ogni singola soluzione finisce sempre per rivelarsi un vicolo cieco. E così si ricomincia. Grande protagonista è sì il fortissimo rapporto fra i due fratelli ma anche il costante senso di sconfitta che si respira ad ogni singola scena, come se l’inevitabile fosse sempre un passo avanti i due. A livello di solidità di sceneggiatura forse manca qualcosa nella seconda parte ma il ritmo serrato, incalzante unito ad una fotografia con colori neon pazzeschi fanno di questo film un vero e proprio gioiellino.