“La perfezione del tiro”: viaggio nella mente del cecchino

In queste settimane di quarantena leggere è diventato un esercizio davvero complicato ma c’è un libro – l’unico – che è riuscito completamente a catturare la mia attenzione, a tenermi incollata alle sue pagine: “La perfezione del tiro” di Mathias Énard (Edizioni e/o, 2019, pp. 183).

Breve, spietato, violento ma anche infinitamente umano, “La perfezione del tiro” è un viaggio nella mente di un giovanissimo cecchino senza nome che combatte sul fronte di una guerra ormai eterna, immobile nella sua atrocità. In questo imprecisato luogo del Medio Oriente la vita del nostro protagonista ruota tutta attorno al momento in cui, attraverso il suo mirino, si erge a giudice e boia dall’alto dei tetti dove si apposta contro il nemico.

Il libro è quindi un viaggio nella psiche di questo giovane combattente, una psiche forgiata da una guerra senza nome, senza luogo e senza tempo ma che sconvolge tutto travestendosi da quotidianità. Solo con il suo fucile come unica ancora di salvezza, senza padre e con un fratello emigrato chissà dove, il cecchino vede sua madre perdere il senno ogni giorno di più finché è costretto a prendere in casa una giovanissima ragazza che se ne prenda cura: è così che entra in scena Myrna, il cui padre è rimasto ucciso da una granata, che accetta il lavoro per mettere da parte quei soldi per i suoi libri, per il dopo, per quando la guerra sarà finita e potrà finalmente tornare a scuola.

Myrna è quindi il punto di svolta di questo breve romanzo, o meglio, è un passo verso di essa, un passo che, però, rimane sospeso: rappresenta l’innocenza che non si è del tutto avvinta alle logiche della guerra, uno sguardo – fugace, timido, inconsapevole – verso il futuro ma anche il risveglio della carne, dei sensi che non sono più solo il mezzo di precisione con cui piegare il nemico ma anche vita, semplicemente questo. Vita. Quindi qualcosa in lui si ridesta, quasi lo travolge ma la guerra non fa sconti, lo richiama all’ordine con le sue insensatezze, le sue brutture, le sue granate che non smettono mai di cadere e a forza di stare dietro un mirino e sparare, prima o poi, qualcosa si spezza. E così rimane.

Myrna, il desiderio di lei e di questo scorcio di normalità dura circa poco più di metà romanzo: stabilire se si tratti o meno di amore è un esercizio molto complicato, forse un invaghimento, sicuramente un’attrazione ma qualsiasi cosa sia non basta, non nello scenario costruito da Énard. Perché il protagonista percepisce dentro di sé l’ombra, la violenza, la rabbia che esplode e sa che Myrna ne è spaventata a morte, lo sente e sa che per lui non c’è redenzione possibile: non potrà mai tornare ad essere il ragazzo di prima perché quella parte di sé è morta per sempre con la guerra, con la prima vita presa.

E così entriamo nel vivo dell’azione, scendiamo dai tetti e passiamo ai combattimenti corpo a corpo, villaggio per villaggio: ci addentriamo quindi nel pieno di quello che può definirsi come romanzo militare, con descrizioni precise, dettagliate che danno quasi la nausea al lettore che si sente trascinato al centro esatto della guerra. E lì la brutalità raggiunge vette altissime e il senso di vertigine coglie anche il nostro protagonista che, in qualche modo, realizza l’insensatezza di quel che sta facendo, dei massacri, degli stupri, di come gli resti soltanto un passo prima di realizzare appieno il suo essere soltanto una bestia fra le bestie.

“La perfezione del tiro” è un libro che non può lasciare certamente indifferenti: stare nella testa di questo giovane cecchino e percepire tutto quel che percepisce lui attraverso la logica completamente distorta della guerra è pian piano sempre più disturbante, dei panni molto scomodi da indossare. E man mano che la lettura avanza una crescente sensazione di disagio si fa strada nel lettore perché la prima persona, in qualche modo, ti rende partecipe di quegli orrori ma soprattutto diventa impossibile non provare empatia per il protagonista. Tifiamo per lui, siamo lui in questo infinito flusso di coscienza che Énard costruisce in maniera impeccabile, perfetta. E quindi la guerra diventa quotidianità, mai male assoluto: non c’è giudizio di merito, c’è la più totale accettazione del fatto che questa è la realtà, che non ne esiste altra e che va bene così perché ormai sono tutti assuefatti alle bombe, alle granate, alla morte. Un romanzo assolutamente imprescindibile.

#worldbookday

Sono stata Edmond Dantès che aveva come unico faro la vendetta, sono stata la rabbia e la speranza di Difred, sono stata Cosimo in cima ai suoi alberi, sono stata Olanna e attraverso i suoi occhi ho visto una Nigeria diversa dal solito, sono stata fra la polvere ai confini del mondo con John Grady Cole, sono stata Billy Pharam che sfida il lupo che sta decimando il suo bestiame, sono stata Lenù e Lila e le ho sentite lì dove fa più male, sono stata la Psicosi delle 4 e 48.

Sono stata Daniel alla ricerca del mio libro nel Cimitero dei Libri Dimenticati, sono stata Oskar che in una chiave ha visto il modo per sentirsi di nuovo vicino a suo padre, sono stata Lucas che poi è l’anagramma di Claus, sono stata Plasson che dipinge soltanto l’acqua di mare, sono stata Georg che segna l’ascesa dei Karnowski e che non sa che sta tutto per precipitare, sono stata la Principessa Brandy Alexander e ho trascinato Shannon con me.

Sono stata Harry, Ron, Hermione e Hogwarts è ancora casa mia, sono stata Milena che apriva le lettere di Kafka, sono stata ogni singola coltellata che mi ha inferto Sylvia Plath con il suo diario, sono stata privata della mia ombra alla Fine del Mondo, sono stata insieme a Lenore e a Vlad l’Impalatore alla ricerca della nonna scomparsa, sono stata a Kingsbridge per costruire la cattedrale, sono stata Tyler Durden e ho combattuto nel Fight Club (ma non ditelo in giro).

Sono stata il «I would prefer not do» di Bartleby, sono stata d’Artagnan alla corte di Francia, sono stata lo Svedese e ho visto sua figlia perdersi, sono stata nel blu con Khaled, sono stata nella Tokyo di Naoko e Toru, sono stata dilaniata fra istinto e ragione con Raskol’nikov, sono stata Vin che scopre di essere una mistborn, sono stata Scout che prende coscienza del mondo che la circonda, sono stata in preda al morbo della cecità e tutto è diventato bianco.

Sono stata Marko, Alana e Hazel e la loro fuga da un pianeta all’altro, sono stata con Drogo in attesa dell’invasione, sono stata Milton che si strugge per Fulvia, sono stata Frank McCourt e la sua poverissima infanzia irlandese, sono stata Swann in quel di Combray, sono stata Anguilla che torna nella Langhe, sono stata ogni lacrima di Leo per Thomas, sono stata Marguerite e le sue camelie, sono stata una donna sotto processo perché non voleva essere madre.

Sono stata nella Edimburgo psichedelica e sporca di Mark e Sick Boy, sono stata un membro della famiglia Cazalet, sono stata Patrick che racconta Zia Mame, sono stata il rapporto fra Dick e Nicole che si sgretola, sono stata Rossella che giura davanti a Dio che non soffrirà più la fame, sono stata al drive-in Orbit, sono stata Jean Valjean che cerca di proteggere Cosette, sono stata Coleman Sick e ho pronunciato parole che mai avrei dovuto.

Sono stata tante storie, tante persone, tanti mondi e tanto altro sarò ancora perché i libri sono il mio rifugio e sempre lo saranno.

La casa di carta: una recensione polemica

È del 3 aprile l’attesissima uscita della quarta parte della serie spagnola firmata Álex Pina, un successo mondiale distribuito da Netflix, argomento di discussione ad ogni latitudine, un pioggia di spoiler su ogni singola piattaforma social esistente. Indubbiamente la serie del momento.

Parliamo quindi di un fenomeno di massa che ha presto valicato i confini spagnoli per entrare a far parte non solo delle serie più amate ma dell’immaginario collettivo grazie alle sue tute rosse e alle maschere di Dalì. Ma è tutto oro quel che luccica?

Nonostante il clamoroso successo “La casa di carta” (LCDP) è sempre stato un prodotto di bassa qualità sia a livello narrativo che nei mezzi a disposizione per la sua realizzazione, per non parlare poi del gusto stilistico che evidentemente risente fin troppo delle influenze di una macchina produttiva abituata a lavorare moltissimo sulle soap opera. Si tratta di una serie di purissimo intrattenimento che fa del plot twist la sua cifra stilistica, mezzo per tenere alta l’attenzione di un pubblico che rimbalza da una parte all’altra come all’interno di un flipper rendendo tutto innegabilmente avvincente. Ma basta questo per considerarla un’ottima serie? Beh, no.

Dove nascono i problemi

Il principale problema de “La casa di carta” – quello da cui poi discendono tutti gli altri -, infatti, è che cerca costantemente di darsi un tono ma fallisce clamorosamente nel suo intento poiché si prende troppo sul serio. Non è scritto in nessun manuale esistente che un prodotto televisivo debba per forza essere “impegnato” per avere una propria dignità, per funzionare: esistono serie che fanno della qualità narrativa e stilistica il proprio punto di forza, che sono strumento di analisi del reale e poi ci sono serie il cui unico scopo è quello di intrattenere. Rientrare nella seconda categoria non è certamente un demerito, anzi, ogni anno vengono sfornate centinaia di serie così e hanno ugualmente il loro pubblico e la loro quota di mercato.

Da cosa si evince quindi che LCDP è caduta in questo tranello? Innanzitutto per questo incessante tentativo di sopraelevare di senso quella che è semplicemente una rapina: il richiamo all’immaginario di Robin Hood è chiaro fin dal primo momento, reso visivamente dalla popolazione che acclama questo manipolo di ladri fuori la Zecca, appoggiando tutto ciò nonostante stiano rubando letteralmente dalle loro tasche. Una retorica populista francamente fastidiosa. Ma non finisce certo qui.

Una delle peggiori modalità narrative con cui gli autori inondano puntate su puntate è quella che potremmo definire la quota tema importante: non c’è un discorso più ampio, qualcosa che venga analizzato in maniera approfondita dando senso a quel che si sta cercando di comunicare al pubblico, no, semplicemente vengono aggiunti alle storyline senza mai preoccuparsi di contestualizzarli e armonizzarli alla narrazione.

Un esempio su tutti? Il femminismo. Un femminismo da salotto, utile soltanto per darsi un tono, riassumibile nello slogan empieza el matriarcado pronunciato da Nairobi. E parlo di slogan a caso ma perché tale è rimasto: da lì in poi non si è mai pensato di portare avanti un ragionamento più organico sulla questione ma, in pieno stile LCDP, si è scelto di far durare la cosa l’arco di una puntata e basta. Uno slogan d’impatto ma soltanto per essere condiviso sui social e diventare virale, mai sviluppato fino in fondo: non c’è niente di male nel cercare di ottenere questo effetto (toccare l’immaginario con la tuta rossa è allo stesso livello), soltanto che non c’è bisogno di costruire frasi iconiche per attaccarsi addosso l’etichetta di serie femminista quando basterebbe essere in grado di scrivere personaggi femminili forti, ben delineati e con un ruolo rilevante all’interno della narrazione.

E ancora. È assolutamente necessario soffermarsi sul concetto di sospensione dell’incredulità che indica quel tacito accordo fra il pubblico e il testo di riferimento: è questo patto comunicativo che rende possibile un’efficace ricezione di un prodotto dell’immaginazione perché, grazie ad esso, diventa possibile per il pubblico accettare lo scarto inevitabile che c’è fra la realtà e ciò che gli viene raccontato. È sostanzialmente un atto di fiducia che il pubblico fa verso il prodotto che sta seguendo e, nel caso de LCDP, possiamo parlare anche di un vero e proprio atto di fede. Credere a quel che succede in questa serie sta diventando sempre più complicato con il passare degli episodi.

E allora, nonostante tutto ciò, com’è che la serie continua ad essere così seguita? Indubbiamente la sua capacità di essere una narrazione avvincente, di tenere incollato il pubblico allo schermo e sono gli innumerevoli plot twist e cliffhanger ad aiutare in questo senso. Basare un’intera serie soltanto su questi due meccanismi, però, è una scelta controproducente: nel breve garantisce un grado di attenzione molto alto (l’effetto sorpresa è sempre una carta vincente) ma sul lungo periodo diventa sempre più difficile gestire una serie con sei/sette colpi di scena a puntata perché prima o poi la fantasia arriva al capolinea e la probabilità di scrivere cose senza senso aumenta in maniera esponenziale. Questa è una delle pecche peggiori de LCDP e sarà sempre più il suo principale problema.

La struttura de #LaCasaDiCarta

Analizziamo ora più da vicino la struttura della serie: la narrazione è guidata in voice over da Tokyo che ripercorre insieme allo spettatore la storia della rapina alternando il tutto a dei flashback sulla preparazione della stessa. Nello specifico, poi, LCDP è finora divisa in quattro stagioni (o parti), di cui le prime due costituiscono un’unità narrativa autoconclusiva mentre il secondo blocco avrà almeno una terza parte prima di considerarsi concluso. Principalmente si delineano due nette differenze:

  • NARRATIVE. È lecito dire che LCDP fosse da considerarsi conclusa con la seconda parte che era a tutti gli effetti un perfetto finale di serie. L’enorme successo, però, ha “costretto” gli autori a ritornare su un materiale narrativo che non aveva più niente da dire perché il piano degli autori seguiva evidentemente un filo logico che aveva come fine ultimo la risoluzione della rapina. Inevitabile, però, che il grande risultato di pubblico portasse ad una nuova stagione: non è né la prima né l’ultima volta che questo accade ma resta comunque una scelta pericolosa poiché sono pochi i casi in cui decisioni del genere si rivelano poi narrativamente efficaci. LCDP non è certamente riuscita ad essere un’eccezione, anzi, è precipitata sempre più;

  • BUDGET: il clamoroso successo, però, ha portato anche un cambiamento potenzialmente positivo ossia un consistente aumento di budget a disposizione. Se la fotografia (ma anche la regia) delle prime due stagioni era alla stregua di una qualsiasi fiction targata Mediaset, quella dalla terza parte in poi ha compiuto un deciso balzo in avanti diventando senza ombra di dubbio l’unico netto miglioramento della serie.

Al miglioramento tecnico, però, non è conseguito quello narrativo: l’aumento di budget e quindi l’opportunità di dare maggiore forza alla storia non è stata certamente colta all’interno del team creativo, anzi, è esattamente vero il contrario. Se nella prima stagione il plot era ben gestito, già nella seconda qualcosa comincia a scricchiolare: i momenti nonsense cominciano a moltiplicarsi, comincia a diventare difficile chiudere un occhio su alcune scelte. Ma, tutto sommato, si conclude comunque in maniera accettabile dal momento che sia il piano del Professore che quello degli autori può dirsi ben riuscito. Il grande successo, come sottolineato prima, ha però costretto gli autori a riprendere in mano un prodotto ormai concluso con pessime conseguenze.

Ovviamente nessuno vive nel mondo delle favole e la serialità televisiva è a tutti gli effetti un’industria e come tale ha nel profitto il suo obiettivo – com’è normale che sia – e quindi questo significa anche “piegarsi” a queste logiche. Non necessariamente questo implica un prodotto di scarso livello ma nel caso de LCDP è stato certamente così.

La quarta stagione: un focus sui personaggi

Analizziamo ora in maniera più approfondita la quarta stagione, l’ultima uscita. ATTENZIONE: da qui in poi ci saranno spoiler quindi, se ancora non avete completato la visione della serie è meglio fermarsi con la lettura.

Questa stagione riprende esattamente dal cliffhanger a conclusione della scorsa quando un’Alicia Sierra sempre più senza scrupoli decide di sfruttare il figlio di Nairobi per costringerla ad uscire allo scoperto e ordinare quindi ai cecchini di spararle. Da questo momento in poi, inizia quella che non possono non definire la fiera delle stronzate: per ben sei puntate su otto la sospensione dell’incredulità viene totalmente ignorata, svuotata di senso e credere a quel che succede sui nostri schermi diventa davvero impossibile.

Il livello di drammaticità necessario a tenere alta l’attenzione dello spettatore è minata costantemente da una sequela di scene non solo irreali ma anche davvero grottesche, involontariamente comiche. Ne consegue quindi il fatto che il carico drammatico che, ad esempio, abbraccia tutto l’arco narrativo di Nairobi, venga letteralmente fatto a pezzi con un accanimento su questo personaggio a tratti imbarazzante. Tre sono le pessime scelte narrative che la riguardano e fanno scivolare il tutto nel trash:

  • L’OPERAZIONE. Qui si è veramente rasentato il ridicolo: Tokyo, dall’oggi al domani, si improvvisa medico chirurgo d’emergenza senza alcuna competenza (all’inizio perlomeno aiutata tramite video e poi costretta ad andare avanti alla cieca quando il collegamento viene interrotto) concludendo comunque l’operazione brillantemente come neanche Meredith Gey e Derek Shepherd avrebbero mai osato.

  • POST OPERATORIO E SEDIA A ROTELLE. Continuando poi con la medicina ai tempi di Grey’s Anatomy, vediamo Nairobi tornare dal regno dei morti in buone condizioni e riuscire persino ad alzarsi dal letto finendo su una specie sedia a rotelle elettrica arredata con tanto di mitra. Il trash nella sua più pura essenza;

  • LA CATTURA. La terza ma non meno pessima scena ritagliata addosso a Nairobi prevede il fatto che, mentre tutti gli altri sono all’inseguimento di Gandía, la nostra povera martire venga da lui catturata e la sua testa infilata nella porta e le sue braccia legate ad essa. Tutto ciò doveva conferire alla scena un altissimo tasso di drammaticità ma questo misto fra una crocefissione e un cappio medievale rende il tutto francamente troppo grottesco, annullando completamente il carico di drammaticità che avrebbe meritato l’intera sequenza che porterà poi alla sua morte.

Parliamo ora di una new entry: Gandía, il principale villain di questa stagione, un villain nella sua più pura essenza, di come non se ne fanno più. E non è certo un caso e mi spiego: si tratta di un personaggio senza una minima caratterizzazione se non quella del pazzo psicopatico tendenzialmente sadico e assetato di sangue, davvero troppo poco per funzionare al meglio. Anche qui emergono problemi di scrittura soprattutto quando, nel finale, questo misto fra Rambo e John Wick viene facilmente manipolato dal professore per costringerlo a ingannare la polizia. L’espediente inventato per piegare un sociopatico di questo genere? La minaccia alla famiglia e il povero Gandía si scioglie come neve al sole. Una soluzione poco credibile poiché completamente out of character, che stride con quel che si è mostrato allo spettatore per intere puntate.

Nell’economia della serie, però, c’è una figura che da sola funge da cardine per l’intera storia: il Professore, la mente geniale dietro la rapina ma anche il centro stesso della serie perché senza di lui e il suo gioco ad incastri, i suoi piani questa non sarebbe altro che una scialba rapina senza alcun guizzo dando quindi senso all’intera narrazione. Benché anche nel suo caso tocchi dimenticarsi il concetto di sospensione di incredulità resta comunque il personaggio che dà senso all’intera narrazione essendo praticamente l’architrave che dà struttura alla serie stessa.

La sua importanza in questa quarta stagione è stata sottolineata anche e soprattutto dalla sua assenza: scosso dalla (falsa) morte di Lisbona anche il Professore perde il polso della situazione e nel lasso di tempo che ci mette a recuperarla, la serie va completamente allo sbando. Dentro la Zecca la situazione precipita fino al punto che la banda si sfalda, Palermo viene legato e, per ripicca, fa sì che Gandía venga liberato segnando quindi l’inizio della fine che porterà prima alla cattura di Tokyo e poi alla morte di Nairobi. Nel momento in cui, però, riprende il controllo di sé, la stagione riacquista una parvenza di senso: la settima e l’ottava puntata, infatti, sono le più godibili (quelle dove il Piano Parigi per il recupero di Lisbona prende vita) perché la cosa che più affascina di questa serie è il Professore che gioca a scacchi con la polizia muovendo le pedine con una certa maestria.

Uno dei migliori personaggi assieme al Professore è Alicia Sierra. Introdotta nella scorsa stagione, è l’Ispettrice della polizia prima incaricata di interrogare – e quindi torturare – Rio per ottenere informazioni e poi vero deus ex machina delle trattative con il Professore e la banda all’interno della Zecca di Stato incarnando perfettamente il ruolo di villain della serie. Si tratta di un personaggio spregiudicato, senza scrupoli, anche qui con tratti di sociopatia (ma ben delineati a differenza del pessimo lavoro fatto su Gandía) e sopratutto rappresenta anche uno dei pochissimi guizzi creativi degli autori: quando si scrive un personaggio si fa necessariamente riferimento ad un immaginario comune che viene plasmato attraverso gli archetipi e qui è stato ripreso quello della Grande Madre ma nella sua versione di cattiva, quello della Matrigna. Infatti Alicia è evidentemente incinta, si aggira sulla scena con il suo ingombrante pancione e tutto ciò stride in maniera terribile con la classica rappresentazione socialmente accettata dell’essere madre: è una donna fiera, spietata, meschina, l’esatto opposto di quel che dovrebbe.

Questi due personaggi, però, non riescono da soli a risollevare le sorti della serie dalla mediocrità, anzi, per concludere questa disamina mi vorrei infine concentrare su un personaggio ormai secondario ma che descrive perfettamente quanto LCDP sia un pessimo prodotto: Arturito. E torniamo quindi a parlare della famosa questione “quota tema importante” che in questo caso tocca vette incredibili mettendo nel mezzo un argomento delicatissimo come lo stupro. In queste puntate Arturo si avvicina tantissimo ad una degli ostaggi, Amanda, la visibilmente circuisce, la droga e infine la stupra. Quello che dovrebbe essere un momento di riflessione importante su argomento così sentito è invece lanciato lì nel mezzo senza alcuno spessore, come se parlare di una violenza così efferata potesse essere qualcosa su cui creare un paio di scene e poi farsi distrarre da altro come niente fosse. E il senso di creare tutto ciò attorno una figura come quella di Arturito? Era davvero necessario? Direi di no, ma anche qui emerge quel bisogno costante di darsi un tono che sta facendo precipitare la serie nel baratro. Peccato.

#wishlistadelphi

E come sempre è tornato fra di noi il periodo più tragico dell’anno, quello che miete vittime su vittime, che riempe le librerie di ogni lettore degno di essere definito tale: gli sconti Adelphi al 25%. Quest’anno sono riuscita nella miracolosa impresa di non comprare nulla proprio per tenere fede ai miei buoni propositi (comprare meno, smaltire di più) ma si sa che gli Adelphi sono un oggetto di culto a cui è difficilissimo rinunciare per cui eccoci qui con una piccola lista dei testi che mi piacerebbe poter recuperare. Magari potremmo trasformarla in una rubrica fissa, chissà.

Intanto, però, iniziamo con questi primi sei titoli!

Il mondo inquieto di Shakespeare, Neil MacGregor

Gli oggetti sono il punto di vista privilegiato attraverso cui Neil MacGregor ci racconta la storia della nostra società. In questo caso si concentra su una piccola porzione di essa, quella che prende vita intorno al 1500: non un libro specificatamente dedicato a Shakespeare ma uno sguardo su venti oggetti che ci raccontano l’Inghilterra Elisabettiana e quella Giacobiana, il pubblico che assisteva alle sue opere, la loro quotidianità e identità, il mondo che lo circondava, il tutto corredato da una gran varietà di illustrazioni, un progetto editoriale di grande livello.

(2017, pp. 315).

Lo diciamo a Liddy?, Anne Fine

Quattro sorelle. Unite, unitissime. Un rapporto apparentemente inossidabile messo a dura prova da un pettegolezzo, da un qualcosa che da un sussurro arriva fino a scuotere le fondamenta di questa famiglia. Una commedia dal gusto tragico, un romanzo costruito in maniera impeccabile che riflette sull’importanza della famiglia, su come il concetto di fiducia venga in essa interpretato e come i segreti rivelino la vera natura delle persone e dei rapporti da esse costruiti. È descritto come un libro crudele, spietato che si legge tutto d’un fiato.

(2002 – prima pubblicazione: 1990, pp. 185).

Luce d’agosto, William Faulkner

Beh, direi assolutamente immancabile. Dal momento in cui ho letto “L’urlo e il furore” è nata in me l’esigenza fisica di recuperare tutta la sua bibliografia: un colpo di fulmine, una scrittura potente che richiede il massimo della concentrazione e che è in grado di restituirti un turbinio di emozioni come pochi altri possono fare. Qui abbiamo Lena, una ragazza incinta, che si avventura nel profondo Mississipi alla ricerca del padre del suo bambino, un uomo solitario e meschino, in lotta con sé stesso: due viaggi, due prese di coscienza diverse che si stagliano sullo sfondo di un’America razzista, rozza, bigotta dove lo spazio per i sentimenti è stato cancellato, dove non c’è alcun tipo di legame destinato a durare e la Guerra di Secessione riecheggia ancora negli sguardi vuoti della gente.

(2013 – prima pubblicazione: 1932, pp. 425)

Questo è Kafka?, Reiner Stach

Una monumentale biografia di uno degli scrittori più amati di sempre: Stach ha dedicato la sua vita alla ricerca di tracce, fatti, prove a lui dedicate, creando una mastodontica biografia in tre volumi, per un totale di oltre 2000 pagine. Qui, invece, porta avanti un’opera di semplificazione, un volume in cui sono sempre gli oggetti il focus attraverso il quale conoscere il mondo, le persone. Si tratta infatti di 99 reperti, documenti, fotografie e tanto altro, un archivio che racconta lo scrittore in maniera inedita, che cerca di darci uno sguardo d’insieme sull’uomo spesso nascosto dietro una narrazione stereotipizzata, smentendo l’immagine di un uomo cupo, chiuso in sé stesso. Come se fosse poi possibile conoscere una persona fino in fondo, come se fosse possibile capire l’uomo soltanto leggendone i libri. Un punto di vista assolutamente da recuperare.

(2016, pp. 360).

Lolly Willowes o l’amoroso cacciatore, Silvia Townsend Warner

Questa è la storia di una donna che, agli inizi degli anni ’20 del Novecento, decide di abbandonare la propria famiglia (che la considera alla stregua di un soprammobile), di non sposarsi e di fuggire in un piccolo villaggio per seguire la sua vera vocazione: diventare una strega. La prima parte di questo romanzo ci racconta l’inquietudine di Lolly nel vivere in questa famiglia conservatrice quando lei non ha alcuna intenzione di seguire il più classico dei percorsi dell’epoca che vuole vederla madre e moglie: deciderà quindi di ritirarsi nella solitudine dove sarà segnata per sempre dall’incontro col Diavolo, un Pan che l’aiuterà a prendere coscienza di sé, in una sorta di percorso femminista di consapevolezza.

(2019 – prima pubblicazione: 1926 -, pp. 176).

Una visita al Bates Motel, Guido Vitiello

Ho avuto la fortuna di avere Guido Vitiello come professore di Cinema durante il mio percorso universitario e sentirlo parlare di Psycho è stato davvero un’esperienza. Per questo attendevo con impazienza questo volume: qui Vitiello assume i panni del detective e ci porta alla scoperta del dietro le quinte di uno dei film più famosi e importanti della storia del cinema attraverso il racconto di aneddoti, ispezionando i luoghi, dandosi al lettore come una sorta di guida delle scene, dello spirito di Hitchcock, dell’inquietudine di fondo che si respira fra uccelli impagliati e ambienti cupi e una ricostruzione attenta di come Hitchcock abbia intessuto uno stile così peculiare e riconoscibile, studiato ancora ai giorni nostri.

(2019, pp. 251).

Buoni propositi per il 2020

Una delle cose che mi ritrovo più spesso a fare la sera prima di andare a dormire è sedermi, prendere carta e penna e scrivere quel che devo fare per il giorno dopo, ponendomi dei piccoli traguardi da raggiungere, piccole cose da fare per vivere al meglio la mia futura giornata. Ho quindi deciso di pensare un po’ più grande e di riflettere su quel che voglio assolutamente pormi come obiettivo per questo 2020 perché, come si dice, “anno nuovo, vita nuova”, no? E allora iniziamo!

1. Il blog

Beh, direi il primo proposito non poteva che essere questo: mi sono lanciata in questo piccolo progetto del creare un blog col massimo dell’entusiasmo, spinta dall’esigenza di avere uno spazio mio dove poter scrivere delle mie passione, di me, di ciò che penso e voglio assolutamente portare avanti tutto ciò con il massimo delle dedizione, rispettando i giorni di pubblicazione e quant’altro. Lo prometto a voi e anche un po’ a me stessa.

2. Comprare meno libri

Lo so cosa state pensando, lo so, davvero, lo so. Eppure, per questo 2020, devo assolutamente riuscire nell’impresa: qualche giorno fa ho preso coraggio e ho contato effettivamente quanti libri non ho ancora letto giungendo a quota 40. E quindi sì, è arrivato il momento di fermarsi e cominciare a svuotare gli scaffali: ho libri che voglio leggere da secoli, comprati anni fa, che aspettano soltanto che mi decida a dare loro una possibilità. Ormai è diventata una questione di principio ma anche di spazio (la mia libreria è strapiena) e di soglia della povertà che si avvicina sempre più pericolosamente. So che potete capirmi.

3. Diversificare le mie letture

È già qualche anno che sto cercando di leggere cose sempre più diverse, che si allontanino dai miei gusti “classici”: se dovessi seguire il mio istinto, continuerei a leggere soltanto letteratura americana ma è ora di aprirsi ancora di più ad altri libri, altri mondi, altre prospettive. Paradossalmente, però, vorrei ricominciare a seguire con più costanza il panorama letterario italiano: negli ultimi anni ho letto sempre meno i nostri autori ma ultimamente sembra che ci sia un certo “risveglio” con nuovi stimoli e idee e non voglio perdermele. Infine, sicuramente l’idea è quella di leggere più indipendente.

4. Voglio perdere tempo a fare soltanto le cose che mi va di fare

Ecco, credo che questo possa essere decisamente eletto come mio motto del 2020. Sì, la vita adulta comporta obblighi a cui non si può rinunciare, d’accordo, ma per tutto il resto voglio prendermi del tempo da dedicare a quel che più mi piace, che mi appassiona e che mi fa stare bene. Ho iniziato l’anno piena di progetti e nuovi stimoli e voglio assolutamente realizzarli: sono sempre stata un po’ pigra e sto cercando di combattere questa cosa ormai da davvero tanto, tanto tempo, per cui direi che questo 2020 deve essere l’anno in cui questa parte di me, che mi ha sempre creato qualche difficoltà più del dovuto, sparirà per sempre. Le idee non mi mancano, spero di essere alla loro altezza.

5. Il Salone del Libro

È ormai qualche tempo che ci penso e quindi è assolutamente necessario che io realizzi questa cosa. Sono stata al Salone una sola volta in tutta la mia vita ed è stata un’esperienza davvero memorabile, di cui conservo un ricordo bellissimo: adoro l’atmosfera che si crea in queste occasioni, la possibilità di conoscere le case editrici, gli scrittori e le scrittrici più da vicino, seguire gli eventi più interessanti e anche soltanto il potersi prendere qualche ora per gironzolare in santa pace fra gli stand. E quindi sì, il progetto #SalTo20 sta ufficialmente prendendo forma.

6. Andare a vedere la Juve allo Stadium

Ebbene sì, oltre ai libri, alle serie tv, al cinema e quant’altro c’è anche la mia passione per il calcio: nella mia famiglia la Juve è sacra e quindi è stato praticamente inevitabile che iniziassi anch’io ad amarla, è un qualcosa che mi porto dietro fin da piccola e che non abbandonderò mai nonostante, per anni, sia stato molto difficile farsi “accettare” all’interno di un fandom fortemente maschile, dove di pregiudizi ce ne sono tanti, tantissimi (ne parleremo, non temete). In tutto ciò, però, non sono mai riuscita a vedere una partita all’Allianz e quindi direi che è decisamente giunto il momento di recuperare questa grave lacuna. Insomma, un anno all’insegna di Torino.

7. Rivedere Lost

Perché sì, bisogna avere anche degli obiettivi molto piccoli e facilmente accessibili: uno di questi, per quanto mi riguarda, è portare avanti il rewatching di Lost. Come dico sempre, c’è un prima e un dopo Lost e senza questa show e il suo modo di intendere la serialità il concetto stesso di prodotto televisivo non sarebbe quello che è oggi. Questa rientra sicuramente fra le serie che ho più amato negli anni (è saldamente sul mio podio dal primo momento che l’ho vista) ma non ho mai avuto modo di rivederla per la concentrazione e l’impegno che richiedere la sua visione: infatti questo sarà il mio primo rewatching di questa serie.

8. Prendermi più cura di me stessa

E infine sì, torniamo seri soltanto per un attimo. Come vi ho già raccontato nel primo post su questo blog, lo scorso anno è stato davvero un anno difficile per me, pieno di difficoltà e momenti neri: ho trascurato tantissimo me stessa, la mia serenità, ho permesso a troppe cose e persone di prendersi troppo spazio rispetto al dovuto per cui è ora di ricominciare a pensare un po’ più a me. Non per puro egoismo ma perché, alla fine, si è semplicemente stanchi di subire, di accontentarsi delle briciole, di limitare sé stessi. Ma non finisce qui, no: devo riprendere anche a lavorare su me stessa, sulla mia persona, voglio cercare di uscire il più possibile da quel guscio a cui mi sono condannata troppo spesso negli anni, guscio che mi ha spesso impedito di cogliere occasioni, di buttarmi nelle cose con un po’ più di spensieratezza. Visto il carico di ansia che mi porto dietro da sempre sarà tutt’altro che un lavoro semplice ma devo continuare a fare dei passi in avanti in questo senso.

P. S.: per un un approfondimento sui miei propositi di lettura per il 2020 in cui vi parlo dei libri che assolutamente devo leggere quest’anno vi rimando al mio video TBR sul canale:

Top 10 libri letti nel 2019

E insomma, finalmente è giunto il momento di inaugurare questo blog in maniera ufficiale. Ho infatti deciso di aprire le danze con il motivo per cui questo posto è nato perché bisogna sempre partire dalle basi: parliamo quindi di libri, di quei libri che nel corso del 2019 mi hanno colpito di più, di quei libri che mi hanno lasciato qualcosa, di quei libri che mi hanno rapita e trascinata via col loro.

Cosa recita quindi il bilancio di questo 2019 di letture? Beh, ho sicuramente recuperato moltissimi libri (all’incirca 70), scoprendo nuovi scrittori e scrittrici, nuovi mondi, nuovi modi di intendere la scrittura ma non direi che si è trattato di un anno del tutto esaltante: ho letto tanti testi che non hanno spostato niente, sia in negativo che in positivo, forse troppi. Ma i dieci di cui vado ora a parlarvi sono sicuramente libri che hanno risollevato alla grande l’andazzo altalenante di quest’anno.

N. B. Piccola ma necessaria premessa: si tratta di una classifica puramente personale e rigorosamente presentata in ordine di apprezzamento, dal gradino più basso fino a raggiungere la tanto agognata vetta. Inoltre vi ricordo che c’è anche un video dedicato alle sole prime cinque posizioni anche sul mio canale YouTube (https://www.youtube.com/watch?v=jrFv0hWmK2Y&t=2s).

Pronti a scoprirla insieme? Iniziamo!

10. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, Yuval Noah Harari

Iniziamo a parlare dei migliori libri del 2019 con un saggio ambiziosissimo in cui il professor Harari ci racconta la storia dell’umanità dalla Preistoria ai giorni nostri con l’obiettivo di semplificare e raggiungere un pubblico molto vasto, di non esperti con una prosa accattivante che tiene davvero il lettore incollato alle pagine. La struttura di questo testo prende forma attorno le tre rivoluzioni che hanno segnato il nostro percorso nei secoli: la prima (circa 70 000 anni fa) fu la rivoluzione cognitiva la quale permise all’Homo Sapiens di diventare l’unica specie umana sulla Terra grazie alla nostra capacità di immaginare cose in astratto, la seconda (circa 12 000 anni fa) fu la rivoluzione agricola che modificò radicalmente il nostro modo di vivere e interagire con l’ambiente grazie alla coltivazione dei cereali, interrompendo quindi il nostro essere dei nomadi. Infine troviamo la rivoluzione scientifica (circa 500 anni fa) che gira attorno al ruolo dell’ignoranza: prima di allora l’obiettivo era quello di preservare le conoscenze già acquisite in modo da legittimare la propria posizione di potere (unito al fatto che per la religione era inconcepibile che nella Bibbia non fosse contenuto tutto il sapere a disposizione) ma la scienza cambiò completamente il paradigma, permettendoci di espandere i nostri orizzonti, di andare oltre. Un saggio davvero ben scritto, molto ambizioso ma sicuramente più che riuscito.

(Bompiani, 2014, pp. 540).

9. Lasciami andare madre, Helga Schneider

Il primo memoir di questa classifica, sicuramente il più straziante. Helga Schneider è solo una bambina quando sua madre la abbandona per arruolarsi fra le fila dei nazisti, un dolore devastante che l’accompagnerà per tutta la vita. In questo testo ci racconta il suo ultimo incontro (datato 1998) con questa madre ormai anziana, mentalmente sempre meno presente ma ancora caparbia, a tratti sfrontata: è il racconto di una figlia che vorrebbe trovarsi di fronte una donna finalmente sconfitta e pentita degli orrori commessi ma ancora, dopo tutti quegli anni, l’unico sentimento che emerge è quello della fierezza, usata per ferire questa figlia colpevole di non capire, di non cogliere la portata della “missione” a cui era stata chiamata. La Schneider oscilla costantemente fra il bisogno di odiarla, di prendere le distanze da lei e quello di sapere, di conoscere, di cogliere anche il minimo accenno di pentimento che, però, non giunge mai: come se questo potesse, in qualche modo, aiutarla a sentirsi meno responsabile (in quanto tedesca) di tutto quell’orrore senza senso perpetrato. Una coltellata nello stomaco, un libro agghiacciante, un punto di vista terribilmente necessario.

(Adelphi, 2004, pp. 130).

8. Eureka street, Robert McLiam Wilson

Questo libro è qui per due motivi: il mio amore sconsiderato per i protagonisti senza arte né parte che abitano ogni paese della Gran Bretagna e un capitolo che da solo vale l’acquisto e la lettura del testo: lo struggente racconto di uno dei tanti attentati perpetrati dall’IRA. Siamo infatti a Belfast e questa è la storia dell’amicizia fra Chuckie e Jake, uno protestante e l’altro cattolico: il primo, un ragazzotto grassottello e sempliciotto con un intuito formidabile per gli affari, il secondo, un duro dal cuore tenero, in cerca di un amore che gli riempia la vita. Il tutto si snoda sullo sfondo di una città che vive nel timore delle bombe, del sangue, agitata da conflitti irrisolti che vengono espletati in tutto il loro orrore nel capitolo dell’attentato, un capitolo che smorza completamente il tono leggero che pervade il testo.

(Fazi Editore, 2010, pp. 414).

7. Preghiera per Černobyl’, Svetlana Aleksievič

Questo testo era sul mio Kindle da un bel po’ di tempo ma non avevo mai avuto il coraggio di leggerlo: spinta dalla visione di quel gioiellino che è stata la miniserie HBO Chernobyl (di cui vi parlo qui, nel video YT dedicato alle migliori serie tv del 2019) pensavo di essere finalmente pronta a leggerlo. Inutile dire che mi sbagliavo di grosso. Parliamo di un reportage un po’ particolare perché qui la Aleksievič scompare completamente, si fa da parte per lasciare la parola a chi non l’ha mai avuta: le vittime, le persone coinvolte più da vicino nel disastro nucleare. Tre anni di viaggi e peregrinazioni in cui la scrittrice Premio Nobel 2015 ha raccolto centinaia e centinaia di testimonianze, coinvolgendo le persone più disparate e riuscendo a cogliere perfettamente l’enorme portata portata del disastro perché non interessata a raccontare i fatti ma piuttosto a dare voce alle vittime e alle terribili conseguenze da loro patite a causa della spregiudicatezza altrui. Ciò che emerge prepotentemente è che Černobyl’ non è stata una “semplice” tragedia ma uno spartiacque nella storia della Russia, qualcosa che cambia completamente il paradigma, la prima crepa nel muro dell’URSS. Un testo necessario perché Černobyl’ non è un fatto lontano ma qualcosa che ci riguarda ancora oggi, un perenne reminder di che tragedia possa scatenare un mix di ignoranza e tracotanza, di fede cieca e di rifiuto della competenza.

(e/o, 1997, pp. 384).

6. Storia di Ásta, Jón Kalman Stefánsson

Una delle migliori scoperte di quest’anno è stato sicuramente Jón Kalman Stefánsson, un autore di cui voglio assolutamente recuperare l’intera bibliografia. Islanda, anni 50. Sigvaldi e la giovanissima Helga vivono un’appassionata storia d’amore e di passione dal quale nascerà Asta; l’idillio, però, viene presto spezzato e così seguiamo la nostra protagonista mentre diventa una ragazza fiera, irrequieta, una donna ammaliante ma non si tratta di un romanzo lineare, che segue un ordine cronologico. È più una peregrinazione nei sentimenti che lineari non lo sono mai per definizione, con diversi punti di vista che si alternano oltre le diverse dimensioni temporali che vengono toccate per raccontare di Asta, il rapporto con il padre, con l’abbandono, con l’amore per poi chiedersi: è davvero possibile raccontare ciò che è una persona, la sua storia? Un testo con una prosa lirica, quasi vicina alla poesia, in grado di esplorare come poche altre i sentimenti umani, il mondo emotivo dei suoi personaggi costruiti con una maestria davvero impressionante.

(Iperborea, 2018, pp. 325).

5. Habibi, Craig Thompson

L’unica graphic novel presente in questa classifica, un nuovo testo che riconferma il mio amore spropositato per Craig Thompson, nato con Blankets. Qui l’ambientazione, però, è completamente diversa: siamo in un luogo indefinito ma decisamente “arabeggiante”, persi fra harem, deserti, racconti epici, disegni di una qualità pazzesca che, però, vuol raccontarci semplicemente cos’è l’amore parlandoci di Dodola e Zam. La prima è solo una bambina quando viene venduta ad un uomo molto più grande e crescerà intrappolata in questo mondo di uomini che la sfruttano e le tolgono ogni velo d’innocenza, il secondo è un orfano che in Dodola trova prima una madre e poi una donna da amare di un sentimento puro, purissimo, viscerale. Thompson si riconferma di una delicatezza disarmante nel raccontare le proprie storie e nell’inserire in maniera armoniosa l’argomento religioso nei suoi testi, per non parlare dello spettacolo visivo che è sfogliare le pagine di questa graphic novel.

(Faber&Faber, 2011, pp. 672).

4. La storia di un matrimonio, Andrew Sean Greer

Conosciamo davvero la persona che abbiamo accanto, quella che amiamo? E’ attorno a questo interrogativo che ci costruisce questo testo e quindi la storia di Pearlie e Holden, una coppia di sposi che vive a San Francisco nei primi anni Cinquanta, immersa in una atmosfera che ancora sa di guerra, di un passato che sembra essere ancora lì, vivo e presente. Pearlie è convinta di vivere un amore perfetto fino al momento in cui, invece, comincia a notare le crepe in questo castello di sabbia che si è costruita per non vedere: passo dopo passo, infatti, scopriamo la verità, pezzi di essa in un susseguirsi di colpi di scena che catturano l’attenzione del lettore, in questo gioco d’incastri che è la cifra stilistica di Greer nel testo. Un libro con un punto di vista molto particolare sull’amore, su cui riflettere.

(Adelphi, 2008, pp. 224).

3. Gli anni, Annie Ernaux

Ed eccoci qui, finalmente sul podio! Con il terzo posto vi parlo di questa autrice francese che avevo conosciuto con “L’altra figlia” ma è con questo testo che mi ha definitivamente conquistata. Qui abbiamo il secondo memoir di questa classifica ma un memoir di tutta altra fattura: la Ernaux, infatti, compie un’operazione diversa, molto complessa ma sicuramente riuscita alla perfezione intrecciando il suo vissuto, la sua storia con la Storia della Francia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino ai giorni nostri. Non c’è soltanto l’io, il tempo e gli anni della Ernaux, è presente anche il Noi perché questa Storia non riguarda soltanto la nostri scrittrice ma tutti noi trasformando questo romanzo in un ibrido fra autobiografia e cronaca collettiva di eventi centrali come la Liberazione, De Gaulle, il ’68, l’emancipazione femminile, l’11 settembre e tanto altro ancora. Un testo che ti trascina in questo vortice, che ti fa rivivere insieme alla Ernaux ciò che è stata la storia del Novecento e non solo, una scrittura davvero da lasciare senza fiato.

(L’Orma, 2015, pp. 266).

2. La casa della moschea, Kader Abolah

Il mio primo Abdolah, finalmente. Si tratta di un Iperborea che volevo leggere da tantissimo e che mi ha letteralmente conquistata. Siamo in Iran e Aga Jan è un ricco mercante e patriarca della moschea di Senjan, luogo dove amori, matrimoni, tresche e libertà scorrono in una sorta di armonia fiabesca interrotta bruscamente dalla fine dell’impero dello scià e l’inizio dell’ascesa di Khomeini, della Rivoluzione Islamica. E così ha inizio un periodo terribile dove quella bellissima atmosfera sognante va in pezzi sostituita dal terrore, dalla paura, dal tradimento, dalla guerra che spezza anche le ultime speranze con questa splendida figura di Aga Jan che rimane lì come costante promemoria di quel che è stato e che sta andando perduto, un uomo che non riconosce più la sua gente, la sua moschea ormai sprofondata nel fervore rivoluzionario. Un testo che racconta una pezzo di storia di cui amo molto leggere e lo fa con una scrittura poetica, evocativa che è in grado di trascinare con sé il lettore. Un autore sicuramente da approfondire.

(Iperborea, 2007, pp. 472).

1. La famiglia Karnowski, Israel B. Singer

E finalmente siamo giunti alla prima posizione con un testo di letteratura ebraica che lo scorso anno ha riconfermato il mio amore per Israel B. Singer. Una saga familiare che mette a confronto tre generazioni di ebrei, tre diversi modi di rapportarsi alla religione: la stretta osservanza mitigata dalla voglia di riscatto del nonno David, il distacco del figlio Georg che si sente più tedesco che ebreo e il rifiuto del nipote Jegor, rifiuto che lo farà arrivare fino alle estreme conseguenze invischiandolo col regime nazista. Un’attenta riflessione sul concetto di identità, su come questa si costruisce, sul sentirsi stranieri in terra straniera e sul perenne oscillare dei protagonista fra l’essere ebrei e l’essere tedeschi in una Germania che prima sembra voler essere la loro casa e poi scivola nell’orrida follia dell’antisemitismo distruggendo tutti i passi fatti fino ad allora. Un testo scritto in maniera esemplare, di ampio respiro che ci racconta sì la storia di questa famiglia ma che ci permette anche di esplorare da vicino il fallimento di ciò che fu la Repubblica di Weimar, assolutamente da leggere.

(Adelphi, 2015, pp. 498).

ERRE DANTÈS: un nuovo inizio

 

Ed eccoci qui, finalmente erre dantès approda anche su WordPress!

Iniziamo quindi con una domanda: perché? In molti diranno che un blog uno strumento un po’ obsoleto al giorno d’oggi e forse un fondo di verità c’è ma questo spazio è parte integrante di una strategia più ampia: esistono già un canale YouTube e un account Instagram in cui vi parlo di me e soprattutto della mia passione per i libri, delle letture che mi colpiscono, che mi lasciano quel qualcosa in più sperando che la stessa cosa possa succedere anche a voi. C’è già abbastanza erre dantès in giro per il web ma banalmente lo spazio risulta sempre troppo stretto per le mie esigenze e non mi dà modo per esprimermi al meglio con il mezzo che più preferisco: la scrittura.

YouTube e Instagram sono piattaforme che insistono sull’aspetto visuale e per questo risultano straordinariamente efficaci nel raggiungere il proprio pubblico di riferimento: sono facilmente fruibili e quindi immediati, d’impatto. Un blog oggi ha ancora la sua importanza, certo, ma sicuramente non può essere niente di tutto ciò: nell’era del tutto e subito, della velocità come tratto distintivo bisogna “lottare” per catturare l’attenzione e leggere richiede quello sforzo in più, quell’interesse in più. Insomma, questa è probabilmente la strada più tortuosa ma, parafrasando quel fantastico personaggio che è Jep Gambardella, voglio perdere tempo a fare soltanto le cose che mi va di fare e scrivere rientra sicuramente fra queste.

 

Questo perché? Perché il 2019 è stato per me un anno molto difficile, pieno di difficoltà, di momenti no, di ansie e di paure a cui ho permesso di prendere davvero troppo, troppo, troppo spazio: riprendersi da tutto ciò sarà un percorso altrettanto difficile e complicato ma è bene iniziare anche dalle piccole cose, fare un passetto alla volta, prendendosi cura di sé stessi in tutte le maniere possibili, facendo progetti e cercando di trovare ogni giorno qualcosa per cui sentirsi bene per quanto minuscola e apparentemente insignificante possa sembrare. Tenere questo blog sarà uno di questi piccoli passi per il 2020.

Ma basta parlare di me, delle motivazioni che mi hanno spinto ad aprire questo blog, parliamo di quello che potrete leggere qui.

  • libri, immancabilmente: se è vero come è vero che il primo amore non si scorda mai allora come potrebbe mancare qui uno spazio tutto per loro? Leggere è sempre stato il mio punto di riferimento, prendere e immergermi nelle storie un antidoto contro tutto e tutti per cui sì, i principali protagonisti saranno loro. Cosa troverete qui rispetto a quel che già c’è sul canale YT e sul mio profilo IG? Qualcosa in più, banalmente. L’obiettivo è principale è approfondire, scandagliare al meglio quel che un libro ha da offrire al lettore per cui ne parleremo in maniera più dettagliata, ci prenderemo del tempo, magari con singole recensioni, magari con riflessioni che prendono spunto dai libri per parlare di tanto altro;
  • serie tv: queste costituiscono gran parte della nostra dieta mediale, occupano una considerevole porzione del nostro tempo e sono una frontiera che merita di essere esplorata al meglio. Se ne parla tantissimo online, sui blog, sui social perché sono sicuramente il mezzo espressivo più congeniale alla nostra epoca. Faccio anch’io parte della folta schiera dei tv series addicted e mi piacerebbe parlarne in maniera più sistematica, non con un post di tanto in tanto, non con un video una volta ogni tre mesi. Anche qui il centro di tutto è prendersi del tempo, tempo per parlarne, tempo per scriverne;
  • cinema: sì, le serie tv sono un tassello fondamentale del nostro vivere mediale ma non sono certamente l’unico. Forse il cinema sta vivendo un momento di appannamento, forse Hollywood è sempre più a corto di idee fra sequel, prequel, remake, reboot, forse la serialità sta occupando sempre più spazio ma appannamento non vuol dire certamente irrilevanza, anzi. Continuo a guardare film, continuo ad andare al cinema, continuo ad appassionarmi all’argomento quindi decisamente troverete anche questo genere di contenuti, qui;
  • televisione: durante il mio percorso di studi in quel di Scienze della Comunicazione la massima che ho sentito più spesso nominare è stata “la tv è morta, lunga vita alla tv“, una grande verità. Checché se ne dica oggi più che mai la televisione è centrale nelle nostre vite, ha soltanto preso forme sempre più disparate: abbiamo a che fare con la tv tradizionale fra servizio pubblico e ispirazione commerciale, con SKY che ormai è ideatore e produttore, non solo distributore ma anche con piattaforme come Netflix, Prime Video, Tim Vision, archivi on demand, possibilità di rivedere programmi televisivi slegati dalla loro programmazione in tv e tanto altro ancora. Insomma, il televisore sarà un oggetto sempre meno importante ma i contenuti la fanno da padrone e qui ne parleremo dalle angolazioni più disparate;
  • varie ed eventuali: infine una categoria del tutto libera. Cosa ci sarà? Qualsiasi cosa di cui abbia voglia di scrivere e parlarvi. Qualche riga più su ho detto che questo blog doveva essere uno dei tanti modi per riappropriarmi di me stessa, delle mie passioni, dei miei spazi e quindi sì, parlerò qui di quel che più mi interessa, degli argomenti più disparati, da quelli più leggeri alle riflessioni più importanti ma anche più intime. Non ci saranno schemi, semplicemente.

Quindi direi che qui ci sono due parole chiave: ampliare e diversificare. Più spazio, più argomenti, più approfondimenti. Questo blog è un progetto in divenire e come tale prenderà forme sempre più diverse: ci troveremo qui il martedì e il venerdì e spero di poter contare sulla vostra presenza durante questo percorso.

Grazie! ❤︎