Inauguriamo oggi una rubrica che tornerà a cadenza ciclica, #ilbiancoeilnero, dedicata per l’appunto al cinema in bianco e nero, una delle mie più grandi passioni. E allora, perché non iniziare proprio con Fritz Lang, universalmente noto come uno dei migliori registi di sempre? Una filmografia impressionante per quantità e qualità, un talento che nasce sotto la Repubblica di Weimar: sono gli anni di massimo splendore dell’Espressionismo tedesco, del cinema muto e di pellicole indimenticabili come Il Dottor Mabuse o Metropolis. Costretto alla fuga dalla Germania dopo un incontro con Goebbels che voleva farne il regista per eccellenza del nazismo, si rifugerà prima in Francia e poi negli Stati Uniti firmando un contratto con la MGM che gli consentirà di avere una lunga e proficua carriera hollywoodiana toccando nuove vette artistiche con il noir e sperimentando nuovi generi come il western.
Il suo cinema vive di simbolismi curati maniacalmente con una fotografia sempre emblematica, un cinema cupo che si sofferma sui lati più bui dei suoi personaggi, sulle loro peggiori pulsioni, che indaga appieno la fascinazione per il male e con l’ossessione per il tempo sempre ben presente in scena.
E allora come non parlare di uno dei suoi capolavori, M – Il mostro di Düsseldorf? Pellicola del 1931, segna l’esordio di Lang nel sonoro – e che esordio – e ha come protagonista un serial killer che prende di mira i bambini. Si tratta di un personaggio di cui non conosciamo il volto per gran parte del film perché così può confondersi facilmente tra la folla, essendo lui stesso un individuo come tanti, il prodotto di una società in decadenza. Lo sguardo di Lang, però, è più ampio e non si limita a parlare soltanto del mostro ma prende vita anche attraverso la caccia al killer che scatena gli istinti più bassi della massa resa isterica dalla paura e dal desiderio di vendetta ma soprattutto dalla mancanza di un ordine che ne regolava la vita fino ad allora.
La costruzione della tensione nella sequenza iniziale
“Scappa, scappa, monellaccio, sennò viene l’uomo nero col suo lungo coltellaccio per tagliare a pezzettini… Proprio te”
Ci sono film che si prendono tempo per crescere e ci sono film che fin dall’inizio catturano l’attenzione: M – Il mostro di Düsseldorf, senza ombra di dubbio, appartiene a questa seconda categoria grazie alla sequenza iniziale costruita in maniera magistrale. È infatti sfruttando le nuove potenzialità offerte dal sonoro che Fritz Lang apre questo film e lo fa con una serie di suoni e fischi inquietanti mentre sullo schermo non c’è nessuna immagine, solo un riquadro nero che ha l’effetto di creare attesa nello spettatore.
Qualche secondo dopo sentiamo la voce di una bambina che recita una filastrocca molto sinistra insieme ai suoi amici, quella dell’Uomo Nero. Si tratta di una scelta che introduce quindi il tema del film e M, il suo protagonista, lo psicopatico che uccide bambini, la cui presenza aleggia in scena fin da subito.
Successivamente le scene si spostano all’interno del palazzo, quasi a volersi mettere al riparo dalla minaccia, e due donne scambiano qualche parola su M mentre una di queste si ritira in casa per lavare la biancheria. Qui viene mostrato plasticamente per la prima volta il concetto di tempo grazie al cucù che segna le ore 12 e un sorriso rassicurante si fa strada sul viso della donna. E così ci ritroviamo di nuovo all’esterno, davanti l’uscita di una scuola: qui incontriamo Elsie e compare in scena anche M per la prima volta.
La maestria di Lang sta tutta in questa scena, famosissima: la camera si ferma sul manifesto dove viene riportata la taglia posta sulla testa di M quando proprio lì comincia a stagliarsi l’ombra dell’uomo che fa sentire la sua feroce presenza, uno stratagemma stilistico che non fa che aumentare il senso d’ansia nel pubblico.
È arrivato il momento di capitalizzare quanto mostrato finora e Lang non si lascia scappare l’occasione per costruire perfettamente una tensione sempre più palpabile e lo fa alternando le scene in maniera più serrata ma non rapida perché il senso di suspense e la cura del dettaglio devono rimanere protagonisti. L’orologio segna le 12.25 e la camera torna alla donna che ormai non sorride più: sente dei passi sul pianerottolo e spera di trovarvi Elsie – che scopriamo essere sua figlia – ma le bambine dicono di non averla vista. Lang torna su M che ci viene mostrato di spalle, creando ulteriore tensione, che è intento a comprare un palloncino per Elsie mentre sua madre parla con il postino chiedendo se per caso sa qualcosa della figlia.
L’inquadratura successiva vede la donna che fissa la tromba delle scale da cui non viene alcun rumore: prova a chiamarla ancora e ancora, sempre più disperatamente, ma dagli spazi vuoti ripresi non provengono segni di vita, né della bambina né di nient’altro. È il presagio della tragedia che sta per accadere.
Siamo ormai giunti al culmine della sequenza, il momento in cui il pubblico non si fa più illusioni e aspetta soltanto di vedere l’incubo realizzarsi. Lang, ancora una volta, sceglie di non mostrare direttamente l’accaduto: il corpo senza vita di Elsie non viene rivelato, in scena compare la sua palla che rotola su un prato mentre il palloncino da poco comprato va a incagliarsi tra i fili dell’alta tensione. L’omicidio è compiuto e i sette minuti impiegati per raggiungere questo climax che li accompagna sono tra i migliori mai realizzati nella storia del cinema.
E poi?
Per definire M – Il mostro di Düsseldorf come un capolavoro bastano questi pochi minuti, un crescendo emotivo che con poche immagini e pochi suoni alternati in un montaggio perfetto, riesce a catturare completamente il pubblico. È solo l’incipit ma i dettagli contano e raccontano meglio di tanto altro cos’è il cinema di Fritz Lang: il suo è un punto di vista originale, accompagnato da una fotografia fortemente evocativa, che non si concentra sull’efferatezza degli omicidi ma che ci restituisce uno sguardo d’insieme più ampio che racconta del panico e dell’isteria che attraversa la città dopo l’ennesimo omicidio irrisolto, una massa informe che chiede a gran voce giustizia e che in nome di essa accusa chiunque. Ancora più interessante è la scelta di coinvolgere anche gli altri criminali della città, che stanchi di essere vessati dalla polizia alla ricerca di M, decidono di prendere l’iniziativa e cercarlo, ergendosi a giudici e portando quindi sullo schermo l’opposizione tra il farsi giustizia da sé e la necessità di seguire le vie ufficiali.
Ma ciò che rende M un protagonista atipico è che indubbiamente si tratta di un mostro, di un assassino che si è lasciato dietro una scia di morti ma è anche un uomo come tanti: l’interpretazione che ne offre Peter Lorre è sublime, con quegli occhi strabuzzati, iniettati non di furia e violenza ma di paura che contrastano con le sue azioni. Lì dove ci si aspetta l’Ombra più cupa ci si ritrova a guardare un uomo in lotta contro sé stesso e i suoi demoni, incapace di dominare le proprie pulsioni e che, pur rimanendo un feroce assassino, riesce ad affascinare il pubblico in tutta la sua miseria sublimata nel monologo finale.
È questa figura che consegna alla storia l’esordio di Lang al sonoro perché M è rappresenta tutto quello verso cui il cinema e la letteratura e l’arte tendono: esplorare le zone moralmente ambigue, rivelare la vera natura umana mettendo il pubblico nella scomoda posizione di doversi fermare a riflettere. Un capolavoro senza tempo.